Non si placano i clamori derivanti dalla proposta  Nordio sulla riforma della giustizia penale, scatenati da alcune parti dell’opposizione e, soprattutto, dall’ANM.

E’ fuori di dubbio che la Giustizia, tra i tre poteri dello Stato, è quello che più urgentemente necessita di interventi decisivi, radicali ed esaustivi, condizione più volte e in vari contesti ribadito dal Presidente Mattarella con toni pacati ma particolarmente significativi.

Non mi appassiona partecipare ai cori da stadio per osannare oppure disprezzare la proposta di riforma Nordio, ma il primo principio democratico è racchiuso nel diritto/dovere del Parlamento e del suo Governo di provare a risolvere situazioni abnormi e non più procrastinabili.

La questione, ovviamente, assume una notevole rilevanza e una altrettanta notevole delicatezza, in quanto in un Paese democratico, la divisione dei poteri dello Stato dev’essere netta e rispettosa delle prerogative costituzionali che ad esse i “padri” costituendi hanno voluto assegnare.

Solo ipotizzando che il potere legislativo e/o quello esecutivo possano prevaricare il potere giudiziario, anche con il solo tentativo di delegittimare alcune sentenze, si potrebbe appalesare una deriva autoritaria tale da compromettere la democrazia e le prerogative costituzionali.

Nella stessa misura, allorquando parti del potere giudiziario, come sta avvenendo da qualche tempo, tenta di forzare la mano agli altri due poteri per contrastare la proposta Nordio di riforma della giustizia, si avrebbe in modo grave una invasione di campo che potrebbe preludere ad un inasprimento dei rapporti, con il rischio che possa sfociare in pericolose derive.

La questione dell’equilibrio tra i poteri, ha da sempre impegnato storici, filosofi e cultori del diritto, da Aristotele a Tommaso D’Aquino, per giungere nell’età moderna a Montesquieu, quest’ultimo teorizzava la separazione dei poteri dello Stato. I nostri padri costituzionalisti, non sottovalutarono affatto la questione,  riportando mirabilmente nel testo costituzionale la separazione, declinando ruolo e competenze: il potere legislativo (ex artt. 70 e ss.), cioè di fare le leggi, in capo al Parlamento; il potere esecutivo (ex artt.92 e ss.), cioè chi è deputato a rendere esecutive le leggi e le norme, ponendo alle sue dipendenze la pubblica amministrazione.

Il potere giudiziario (ex artt. 101 e ss. della Costituzione) è attribuito ai giudici, nell’ottica di una sana e leale collaborazione tra i tre organi dello Stato, in assenza della quale avremmo il caos oltre che deleterie scorrerie per la sopraffazione dell’altro/i.

Montesquieu   ammoniva che "Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti”. In questa ottica i giudici devono applicare il diritto, guai consentire che la Magistratura possa, con una illecita invasione di campo, determinare scelte che spettano agli altri due poteri dello Stato.

Soprattutto in questi ultimi tempi, con le due pubblicazioni dei “rapporti” Palamara, che anche se solo una minima parte corrispondesse a verità c’è da rabbrividire e preoccuparsi per la tenuta democratica del Paese; non da meno sono da considerare alcune condanne di membri considerati da sempre  architravi su cui si è poggiata la magistratura, vicende che hanno e continuano ad essere terremoti che stanno scuotendo alle fondamenta il sistema giudiziario.

Ripescando dalla mia memoria, mi sovviene delle feroci accuse rivolte in passato alla Democrazia Cristiana per la presenza nel suo interno delle correnti, ritenute dai più il luogo del malaffare. Nella stessa misura, si potrebbe pensare la stessa cosa per le correnti nella magistratura, con la differenza che le correnti nei partiti possono essere correnti di pensiero ma anche di potere politico, ma quelle nella magistratura assumono, senza ombra di dubbio, una valenza di sostituzione e prevaricazione degli altri due poteri, condizione a dir poco pericolosa per la tenuta democratica del Paese.

Abbiamo il dovere di restituire ai cittadini la certezza che le sentenze non possono e non devono mai essere influenzati da elementi esterni al giudizio, meno che mai quando interessano soggetti politicamente esposti, giudicati da magistrati a correnti variamente colorate in riferimento ai partiti politici e/o aree politiche ben definite. Dobbiamo chiederci, come si possa accettare con tranquillità una sentenza di condanna emessa da un magistrato appartenente a una corrente etichettata diversa oppure opposta alla fede politica del soggetto sottoposto al giudizio? 

Umanamente potrebbe far sorgere nei condannati e nell’opinione pubblica il dubbio che l’appartenenza politica/partitica abbia potuto influire sulla sentenza emessa.

Certamente qualcuno si affannerà a sostenere l’imparzialità della decisione del magistrato, ma la condizione umana, e la sottile linea di demarcazione tra il senso della funzione e la debolezza umana  è talmente sottile da essere inesistente e alcune volte incomprensibile, non trattandosi di macchine programmate per dare risposte rispetto a parametri definiti.

A mio sommesso parere, i padri costituzionalisti hanno sapientemente garantito i giudici introducendo nel testo costituzionale il C.S.M.(Consiglio Superiore della Magistratura), organo di governo della magistratura, senza alcun consenso alla costituzione di associazioni sindacali. La delicatezza della funzione svolta dai magistrati deve indurre a vietare l’appartenenza ad associazioni sindacali, avendo cura  di non caratterizzare mai e per nessuna ragione il proprio orientamento politico, per tale chiara ragione, le associazioni esistenti  devono essere sciolte e, chiunque decida di avventurarsi nelle competizioni elettorali, devono lasciare definitivamente la magistratura, con un percorso di non ritorno assoluto.

La riforma proposta dal Ministro Nordio sta trovando un vasto e aspro dibattito soprattutto sulla soppressione dell’abuso d’ufficio, sottovalutando un dato incontestato, che il 98% dei pubblici amministratori accusati di tale reato, ricevono una sentenza di assoluzione oppure un proscioglimento in istruttoria, ma nel frattempo, stante le lungaggini ataviche degli uffici giudiziari, queste PERSONE vivono uno stato psicologico e relazionale tale da compromettere lo stato di salute, talchè, sovente persone perbene e cultori del diritto, disertano le candidature per non finire sotto la spada di “Damocle” di un reato, spesso usato come clava per intimidire l’azione politica/amministrativa.

In clima di riforma dell’impianto giudiziario, sarebbe opportuno sollecitare il Ministro Nordio a dare finalmente esecuzione alla volontà espressa dal popolo italiano nel Referendum sulla responsabilità civile dei magistrati dell’8 novembre 1987, che si concluse con un voto plebiscitario dell’80% dei SI.

Il popolo italiano con la legge del 13 aprile 1988 n. 117, nota come legge Vassalli, ha subito un gravissimo torto, in quanto il Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati , è cosa diversa dal quesito referendario e quindi della volontà popolare. La legge ha “annacquato” la responsabilità di eventuali errori commessi dai magistrati, ponendo a carico dello Stato e non del magistrato, l’onere del risarcimento per i due terzi, ipotizzando la possibilità, successivamente, di rivalersi sullo stesso, aggredendo annualità dello stipendio.

Sarebbe interessante sapere quanti giudizi di responsabilità sono stati avviati e conclusi, senza contare che gli anni di detenzione ingiusta non si ripagano né con l’allungamento delle aspettative di vita, né salvaguardando i psicodrammi che vivono le famiglie dei soggetti coinvolti. Non ci sono ristori adeguati, la giustizia dev’essere giusta, e prima di mandare in galera un innocente bisogna valutare tutte le condizioni.

Ci devono far riflettere le vicende dell’ex Ministro Darida, del presentatore televisivo Enzo Tortora e tantissimi altri, noti e meno noti, non per questo meno importanti, che hanno provato ingiustamente “ospitalità” nelle patrie galere, per vedersi molto dopo riconosciuti INNOCENTI, con carriere distrutte e tanta, tanta amarezza.

E’ difficile accettare che una “casta” di privilegiati abbia un trattamento diverso da quello riservato ai politici, ai sindaci, ai medici, ai pubblici dipendenti, nel principio dell’articolo 3 della Costituzione che recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. 

 

Prof. Alessandro Calabrese

Componente la Direzione nazionale D.C.