Continua, con crescente interesse, l’attenzione attorno alla ripresa dell’iniziativa politica da parte dei cattolici.

 Tante si contano le riflessioni sulle prospettive reali o velleitarie di un nuovo centro politico, assai attente a cogliere i multiformi aspetti di un processo politico che sta agitando l’azione di diversi partiti e partitini nella illusione che quella collocazione possa assicurar loro un nuovo passaporto politico per quell’elettorato che da tempo sta alla finestra.

In ciascuno di questi commentatori si colgono diffusi elementi di perplessità sulla reale praticabilità di questa operazione, anche per le motivazioni che sembrano sorreggere tali progetti.

Secondo l’analisi di Nino Labate,nell’articolo” Il centro “decentrato”..” su Il domani d’Italia del 22 scorso, c'è un rincorrersi da parte di :”.. innumerevoli formazioni emerse di recente autoproclamatisi di centro, o frettolosamente identificate come tali sulla scia del “centrista moderato” Draghi; che messe assieme a quelle irrilevanti e personalizzate che già  esistevano da tempo, compongono una confusa galassia destinata e capace, secondo gli ottimisti promotori, a essere alternativa e a delegittimare i cosiddetti partiti di destra e sinistra, che nel loro estremismo rappresentano pericoli seri per la democrazia del nostro Paese. Sarà!”.

Una lettura da cui traspare un chiaro ed inequivocabile scetticismo.

E la conclusione ci sembra assai più impietosa perché quel centro che definisce “illusorio spazio geometrico”..”diventa una formula indistinta e paradossale, qualcosa che sfiora l'ambiguità, se non il trasformismo”.

Una disamina che non fa sconto, giungendo persino a scomodare la sociologia, dallo studio della struttura della società, ai flussi delle dinamiche elettorali che, già cent'anni fa lo stesso don Sturzo ammoniva a non ignorare.

Come allora anche oggi il nostro sguardo all’evoluzione del sistema sociale non può non cogliere la grande rivoluzione che si sta avverando nell'immediato orizzonte.

E per questo che innanzi ad ogni altra cosa, l’autore ci invita a non lasciarsi sfuggire il significato delle trasformazioni che, rivoluzioni digitali ed antropologiche di così grande portata, sapranno dare come risposta efficace all’allarme sul clima e sulle emissioni di gas serra, come rese drammaticamente ultimative dalla conferenza di Glasgow.

Ora se il problema principale fosse solo di attrarre quella gran parte di astensionismo che non vuole sentirne di andare a votare, pur nella molteplicità delle motivazioni, che non sono, ovviamente, tutte riconducibili alle convinzioni anti-sistema o no vax, non troppo ci sarebbe da ben sperare se si immagina di  mobilitare gran messe di voti.

Anche perché c'è sempre un maggior rifiuto della politica come arte del fare “bene comune”, per l'incapacità e l’incompetenza che sempre più si mette in campo, il cui deficit, pur trovando giovamento dalle eccellenti doti di premier di Mario Draghi, non pare sufficiente a lenire la grande malattia di cui è affetta da tempo la classe politica.

Un rifiuto della politica che è anche lo specchio di una crescente indifferenza e di un radicato individualismo che mette spesso davanti a tutti il proprio interesse.

Certo il problema è anche di metodo.

E chi altri, più della Dc, è stato maestro nell’arte della mediazione e della prudenza a difesa del bene comune?

Quel metodo che, secondo Augusto del Noce, era originato dalla necessità di controbilanciare un Pci di cui nessuno poteva giurare della piena democraticità (con una cortina di ferro che passava dai nostri confini).

Ma, a preoccupare era allora anche un robusto antifascismo, che andava superato “senza violenza e con la libertà".

Oggi non c'è nessuna remora o argine nel rivendicare o volersi ritagliare disinvoltamente una collocazione di centro, tanto sembra essere diventata la scommessa quotidiana di tante piccole forze politiche.

Il fatto è che non si vede in nessuna di esse una ragione programmatica seria, ossia un nuovo progetto di paese sostenuto da un profilo culturale e da una filosofia politica che non sia solo l’artificioso e vagheggiato ricondursi a metodologie e prassi tipiche del primo tratto della nostra storia repubblicana.

Quello che manca, in un andirivieni di adattamenti, dal chiaro sapore trasformista, è quel retroterra autentico di ideali e valori saldi, che solo può garantire l'autenticità di un rinnovamento culturale e relazionale nel comune cammino verso nuove frontiere di sviluppo e di progresso, che abbia al centro il benessere della persona, in quanto singola, e quale espressione di una comunità sociale.

Ed è paradossale che proprio la Dc che si avvia a riproporsi come la protagonista più accreditata a mettere in campo un progetto di paese che ha tra i suoi assi la salvaguardia della Carta costituzionale, i cardini di un nuovo Umanesimo, come delineato da Papa Francesco,e l’intransigente tutela dell’ecosistema planetario, e si pone come artefice di un nuovo corso, ampiamente distante da tattiche e contenuti populisti e sovranisti,  nell’idea di un popolarismo che trova la sua attuale declinazione nell’Umanesimo solidale e nella transizione ecologica dei sistemi di produzione, non ritroverebbe giovamento, oggi, dalle tradizionali categorie di destra, sinistra, centro.

Il fatto è che quell’area di centro nella sua inedita funzione di lavacrum di nuove identità, sta divenendo un illusorio approdo di partiti e partitini personali nell’intento di rifarsi un nuovo maquillage e ripulirsi dai pesanti fardelli che portano nella loro esperienza recente: politiche dal fiato corto, non disgiunte da metodi demagogici, in rapida parabola: dalle stelle ad una inconsistenza sempre più in bilico, o per mutazioni troppo rapide.

Insomma, in questa artificiosa corsa al centro, il trionfo del più ortodosso machiavellismo, di certo, non esalta, anzi, rende sospetta la capacità rappresentativa di quello spazio geometrico, emblematicamente evocativo di metodi, prassi e visioni inclusive, che fecero grande l'Italia del secondo dopoguerra e che ancora oggi sono un fattore ineludibile per attuare profondi cambiamenti ordinamentali ed attuare tutte quelle trasformazioni strutturali, che, non è ardito definire rivoluzionari, necessari per portare il paese ad un rinnovamento radicale nei paradigmi, nei contenuti e nelle finalità dell’azione politica.

Mentre facciamo fatica a cogliere questa mission nel filone culturale liberal-liberista, che nell’immanente dualismo elite-popolo, chiuso nell’angusta visione sovranazionale, sempre più egemonica, ha ridotto la persona alla stregua di una merce, difficilmente arretrerà dalla difesa ostinata delle rendite e delle speculazioni finanziarie.

Al contempo facciamo fatica a cogliere, nel riformismo progressista e giustizialista, alimentato da un pragmatismo sempre più liquido, tra nuovo corso dei 5 stelle di Conte e l’inedito proposito di un’alleanza strutturale vagheggiato dal Pd, con sullo sfondo tutte le ambiguità di un tale alleanza e la pervicace riproposizione di iniziative a tutela di diritti, dai profili talora cangianti e rifrangenti, una visione di centro se non come l’ennesima trasfigurazione, in un nominalismo vuoto, ove è difficile scorgere, nel dualismo persona-comunità, un giusto e virtuoso punto di bilanciamento tra diritti della persona e bene comune.

E, se è vero che per costruire un’alleanza di lunga durata occorre delineare un progetto politico che trovi profonda condivisione di valori e programmi, ci chiediamo come possa trovare attuazione nell’idea di una federazione, ossia in una formazione che all’esterno deve parlare come fosse un corpo unico, tra forze di diversa matrice culturale.

Alludo in particolare alle tesi di Ettore Bonalberti “ Prove di centro” del 29 scorso su questo giornale e di Giorgio Merlo “Culture riformatrici e federazione politica” su Il domani d’Italia del 29 scorso, con cui si continua, per l’ennesima volta, nell’idea che “l’unica strada realisticamente percorribile resta quella di legare l'attualità e la modernità di una cultura politica - nel caso specifico del cattolicesimo popolare e sociale - in un contenitore più largo e pluralistico. Quello che comunemente viene definito come una “federazione” o un soggetto politico plurale” (Giorgio Merlo, fonte citata).

Una tesi che però trova, nel prosieguo del suo ragionamento, forte contraddizione.

Ci chiediamo come possa procedere un qualsivoglia soggetto politico plurale, ossia una miscellanea di visioni, ideali e valori non sempre compatibili ed anzi in taluni casi antitetici, come in tutto il versante della espansione dei diritti civili: vita, identità di genere, utero in affitto, ecc.,con la tesi di “ legare ogni scelta ed ogni progetto politico ad un riferimento culturale ed ideale”?

Ad esso fa eco la simile tesi esposta da Ettore Bonalberti, su questo giornale, il 29 scorso, dal titolo “Prove di centro”, il quale, nonostante le smentite nei fatti di tali proponimenti, continua a credere nella plausibile attuazione di tale prospettiva, come si ricava da queste affermazioni:

“..A Venezia, nei prossimi giorni discuteremo di questo progetto con gli amici socialisti, liberali e repubblicani, per lanciare anche dalla città lagunare il progetto di un nuovo centro alternativo alla destra nazionalista e populista e distinto e distante dalla sinistra ancora alla ricerca della propria identità. Un centro pronto alla collaborazione con quanti intendono difendere e attuare integralmente la Costituzione repubblicana.”.

Noi gli auguriamo tutto il bene possibile.

Ma non si capisce come possano agevolmente legarsi in “un progetto di nuovo centro alternativo“ come Egli prefigura, o in “un progetto virtuoso e credibile” come delineato da Merlo, grandi eredità culturali le cui linee di demarcazione imporrebbero una trasfigurazione identitaria, ora a vantaggio dell’una, ora a vantaggio dell’altra forza federata, che porterebbe a frequenti stress-test, capaci, in breve tempo, di approdare ad un esiziale default.

Già non è una sfida di poco conto pensarlo come tentativo capace di devitalizzare la facile tendenza al partito personale e alla subalternità totale al capo.

Congetturare però di rendere compatibili nuclei programmatici che sottendono visioni, talora molto difformi negli obiettivi, appare impresa poco praticabile.

Così vien da chiedersi quali possano essere i punti in comune tra un modello di paese che si intoni ai canoni di una cultura cattolico-democratica e popolare ed un modello liberale-liberista o con culture, socialiste e socialdemocratiche e filoni radicali, assai mirati all’espansione senza freno dei diritti civili e di modelli di produzione poco sovrapponibili.

Il problema sorge prepotentemente perché un’alleanza federativa non è come un’alleanza di governo, ove le diverse identità politiche, che restano distinte nei loro manifesti valoriali, trovano nella mediazione un punto di convergenza nell’interesse del paese.

In un’intesa federativa le identità di ciascuna componente devono esporsi ed intersecarsi con filoni di pensiero che prefigurano soluzioni dissimili, il che vuol dire che devono cedere qualcosa della loro identità originaria e acquisire qualcosa da altre culture.

Che di per sé non sarebbe un problema.   

Resta però il fatto che in questo modo si crea una nuova identità chè non si sa, nell’evoluzione breve o lunga dell’esperimento, quanto può accrescere o depauperare la nuova soggettività politica.

Gli esempi, in realtà, sono nel segno contrario, ossia nel segno di esperimenti che non hanno dato buoni frutti.

Così dai primi esperimenti di lista congiunta socialisti e socialdemocratici al più fortunoso esperimento della Margherita, naufragato poi per impossibilità da parte delle due anime, cattolica e progressista, di continuare a trovare una sintesi tra le sue diverse idee di paese che ciascuna componente non rinunciava a proporre: ovviamente sui temi più qualificanti delle rispettive identità programmatiche.

Non si capisce allora perché sia l’uno, esimio notista politico, sia l’amico Ettore, vice segretario, si ostinino, in una sorta di leit motiv, a prefigurare quella strada quando c'è già una realtà politica del mondo cattolico che si è riavviata.

Un percorso, ancora molto impegnativo, ma confortante che fa ben sperare, come le recenti elezioni amministrative hanno dimostrato con la convinta risposta da parte di un elettorato che non ha per nulla archiviato quegli ideali.

Ma davvero Bonalberti ritiene più coerente mettere in gioco un'identità recuperata, pronta a ridare fiducia e rappresentanza a tante istanze inevase in questi trent’anni, preferendo, di contro, un velleitario esperimento tutto da verificare e con molti prevedibili inconvenienti, non facilmente superabili, piuttosto invece che sostenerne convintamente la sfida intrapresa?  

Anche per il concreto rischio che l’inerpicarsi in un tale ibrido, che ovviamente implica progettualità politiche di compromesso, finisca per demotivare e disorientare di nuovo l’elettorato dell’una e dell'altra cultura politica.

Un qualche parallelo non ci sembra ultroneo.

Ci basta guardare, in retrospettiva, l’esito di alcune recenti innaturali alleanze tra forze politiche.

Emblematica quella che caratterizzò il primo esecutivo dell’”Avvocato del popolo” che per mettere insieme visioni politiche opposte fece ricorso all’espediente del contratto di governo.

Con il paradosso di una visione di paese ibrida e a compartimenti stagni, secondo un metodo di lottizzazione, senza coerenza di visione, nel quale Lega e 5 Stelle si sono ritagliate un proprio spazio di proposte così che ciascuno potesse rivendicare la propria bandierina, ma creando grave danno ad un serio e coerente sviluppo nel paese.

Come testimoniato dal fatto che molti di quei provvedimenti, ora messi in campo dalla Lega di Salvini, soprattutto in materia di immigrazione, ora dai 5 stelle, tra no Tav, sostegno ai gilet gialli e reddito di cittadinanza, furono poi man mano ricusati o smantellati dal secondo governo Conte, o continuano ancora oggi a far discutere per ridimensionarne gli effetti.

Oltre al consistente calo di consensi che questo ha prodotto ad entrambi i partiti.

Certo la mediazione politica può fare miracoli.

Ma è più facile quando avvenga in un quadro di alleanza programmatica dove c'è un comune denominatore che consente un progetto organico e coerente,come è stata nell’ordinaria consuetudine, giammai in un contratto di governo ove ognuna delle componenti vi scrive un pezzo del suo programma, senza che l’altro possa mettere bocca.

Ne traiamo prova dalle diverse esperienze di governo con cui il partito d'ispirazione cattolica riuscì a realizzare con forze di matrice laico-materialista, per ben trent’anni.

Se tanto, però, riuscì a fare l'intelligente capacità di mediazione, soprattutto dei due partiti, più rappresentativi Dc e Psi,  che agivano in un quadro di intese da posizioni identitarie ben precise, non altrettanto può riuscire l'esperimento di un cartello federativo, ove forze di opposta ispirazione, anche se intrise di un comune umanesimo, sono portatori di un'idea di Stato differente nelle sue espressioni istituzionali più rappresentative.

Basta comparare alcuni punti dell’azione politica: presidenzialismo, sistema elettorale prevalentemente di tipo maggioritario, netta collocazione nel centrodestra, accenti di sovranismo seppur moderato, scuola-azienda, ridimensionamento delle tutele sindacali.

Insomma gli assi più importanti che prevalentemente guidano Forza Italia, Italia viva, Azione, Psi, + Europa, Coraggio Italia, ecc.).

Altro tono e profilo hanno le linee direttrici dell'area democristiana: mantenimento della centralità del Parlamento, netta contrarietà a mutilazioni improprie dell’impianto istituzionale, come avvenuti con la riduzione del numero dei parlamentari, legge elettorale proporzionale, esaltazione del principio di sussidiarietà, valorizzazione del giusto ruolo dei sindacati, valorizzazione della tutela e della funzione della famiglia, come fulcro della società,, valorizzazione del volontariato, coesistenza pacifica come valore insormontabile nel rapporto tra i popoli, ecc.

Tanto vale per cogliere a piene mani il modo assai differente, che ne ha caratterizzato e ne continua a caratterizzare programmi e proposte politiche.

Ed ogni tentativo teso a ricavare la natura identitaria di questa rinascita: soggetto politico nuovo o nuovo soggetto politico, non fa che iscriversi nell’irrilevanza nominalistica perché ci sembra l’ultimo dei pensieri che può oggi affiggere la Dc di questo terzo millennio.

Così come appare assurdo - a tre anni dalla sua ripresa organizzativa,statutaria e politica, dopo aver conseguito, nella sua prima discesa in campo, una chiara e robusta risposta dell’elettorato, soprattutto in Sicilia - ripercorrere condizioni che hanno già fatto registrare un sonoro fallimento con il tentativo, andato a vuoto, dell’esperimento federativo dell'area democratico-popolare, nel quale il partito aveva posto precisi paletti, per prevenire mire egemoniche, che puntualmente non sono mancate da parte dell'Udc, sordi nel tagliare ogni cordone ombelicale con sovranisti e populisti, per ragioni che probabilmente avranno intersecato ambizioni e sopravvivenze politiche.

Quel manifesto federativo giace, ora, come simulacro, in un angolo buio della storia politica di una trentennale diaspora.

Mentre la linea del partito si dipana, in modo sempre più incontrovertibilmente chiaro, verso la più ampia riedizione di un patrimonio identitario che non soffre, come si è dimostrato, nessuna obsolescenza, avendo da sè infa sufficiente per rendere viva ed attuale, in questa congiuntura pandemica e sociale, una progettualità politica per assicurare un nuovo epocale sviluppo della società nel pieno rispetto dell’ecosistema.

Non altrettanto affidabile e credibile appare un diverso scenario nel segno di una esperienza politica nuova, ridefinita non sul modello che ci ha guidati nel dopoguerra, per cinquant'anni, ma su ibridazioni o innesti capaci di trasfigurare basi, ideali e fonti di riferimento che furono tipici dello scudo crociato, per andare come sembra orientare l’ennesima riflessione di Merlo e Bonalberti sul punto,“ ..al di là della stessa DC ..”.

Ma questa finisce per essere un’altra storia, e forse, perdente, già al suo affacciarsi.

 

Luigi Rapisarda