Nel 1952, con il movimento dei Focolari sotto studio da parte della Santa Sede (si dubitava da taluno della sua ortodossia), la Lubich deve rassegnare le dimissioni dalla dirigenza. “Lo studio su Chiara da parte della Santa Sede – conferma Lucia Abignente - c’è stato, ha avuto inizio nel ’48 a seguito di alcune accuse ed è stato un processo lungo e sofferto”. A un certo punto fu chiesto a Chiara di allontanarsi dalla responsabilità del movimento e lei scrisse le sue dimissioni: era pronta a tutto, anche allo scioglimento. 

La sua lettera di rinuncia reca la data del 9 febbraio 1952. “Anche per il mio attuale stato di salute – scrive Chiara – mi dimetto dalla dirigenza del Movimento dei focolari dell’unità, restando semplice focolarina”. Da questo momento la Lubich non firma più le lettere personali ad autorità ecclesiastiche, anche se le ispira o stende lei le minute. Le firma, invece, Giosi Guella, nuova responsabile del movimento.

Chiara aveva proposto, in sua sostituzione, Natalia Dallapiccola quale capo del ramo femminile, ed Igino Giordani quale capo dell’intero movimento. Il Sant’Uffizio invece sceglie proprio Giosi, che allora si trova a Roma, per assolvere unitariamente queste funzioni (ritenendola più equilibrata della Lubich, suggerisce maliziosamente qualcuno) e ne dà conferma alla Segreteria di Stato il 18 luglio 1953. La Guella diventa così Capofocolare generale. 

Per i Focolarini – scrive Sandro Magister – comincia la quaresima, con il Sant'Offizio che “guarda male questa gente strana, mezzi comunisti e mezzi protestanti e con una donna a capo, per di più visionaria”. “Ci hanno messo sotto studio per anni – ricorderà la Lubich a proposito di questo periodo - ma l’uno dopo l´altro, ogni loro ispettore se n´è sempre andato via commosso, conquistato da quello che aveva visto”. C’è però chi ritiene che queste indagini siano state condotte con una particolare rudezza e chiusura su una donna, per giunta laica, da parte dei sacerdoti, monsignori e teologi incaricati.

Del resto allora c’era di mezzo il “Sant’Ufficio”, come lo chiamava padre Bonaventura da Malè, il quale ricorda che “in quel tempo parlare di Sant’Ufficio era un gran spavento”. Più prolisso, Antonio Baldini lo chiama nientemeno “la suprema Sacra Congregazione del Santo Uffizio”. In effetti si chiamava anche, brevemente, la “Suprema”: e ciò – nota Roberto de Mattei - “per la sua importanza primaria”.

Nel 1983 Giulio Andreotti potè citare l’ente romano come “la Congregazione già chiamata del Sant’Uffizio”, mentre il Marchese del Grillo, nell’omonimo film di Monicelli, lo presenta come emblema caratteristico della Roma papalina.  Il trentino don Marcello Farina, dal canto suo, ricorda che “l’ombra del Sant’Uffizio per la difesa della fede cristiana era presente dappertutto”, e non manca di aggiungere: “Ogni cammino verso una Chiesa diversa era precluso”.

 

Ruggero Morghen