La vita di Cesare Trebeschi è forse l’itinerario più compiuto del Novecento e dell’affaccio alle contraddizioni del secolo nuovo. La sua è la biografia esemplare della cittadinanza. Per le radici, la catena delle generazioni, la testimonianza e la partecipazione. Capace di tenere insieme ragioni e passioni, lucidità di giudizio e pietà di comportamento. Una lunga vita di scelte quotidianamente praticate per non perdere l’orientamento, per non dimenticare dove vogliamo andare, e dove siamo finiti. Con l’attenzione alla verità, senza melodrammi, senza angosce, consapevole della gracilità della condizione umana.

Capire, cercare di vedere, non infierire, non dimenticare.

Ogni anno, dal primo dopoguerra, Cesare Trebeschi, il 24 gennaio (in una continuità di impegno che non si è spenta con la sua morte), invita i bresciani in San Faustino per una cerimonia in ricordo del padre, l’avvocato Andrea, morto nel campo nazista di Dachau il 24 gennaio 1945. Lo fa con un cartoncino color seppia sulla cui prima pagina sta una foto del filo spinato del campo e sul retro il testo dell’invito alla messa in ricordo del padre e di quanti, come lui, “internati, antifascisti, zingari, ebrei, omosessuali, politici, apolidi”, non sono sopravvissuti alla crudeltà nazifascista, e hanno pagato, anche per noi, la coerenza con le proprie idee.

Durante la messa, alla liturgia della parola, salgono all’altare per una breve preghiera i figli, una nidiata, e i nipoti, tanti, di Cesare. L’ultimo, davanti al microfono, è il figlio adottivo, Giovanni, affetto da sindrome di down. Giovanni emette suoni che sono espressioni del suo pensiero, ma che arrivano sull’uditorio come una preghiera nascosta che pare quasi una protesta, una rabbia, una malinconica supplica. Il disagio che ne nasce è la più forte sollecitazione alla memoria, al ricordo di una tragedia.

Ed è un esercizio di fedeltà cui Cesare non si è mai sottratto. Il primo giugno del 1932, in occasione della sua prima comunione, Cesare aveva ricevuto una lettera dal padre Andrea, una memoria sul valore della vita. Il primo giugno 2003, Cesare Trebeschi, nonno, detta una lettera per il nipotino Cesare in occasione della sua prima comunione. E qualche settimana dopo, di ritorno da un viaggio a Mauthausen e Gusen dove il “bisnonno Andrea è stato portato a morire”, Trebeschi scrive una nuova lettera alla nipote Anna Carolina, che lo ha accompagnato in quel doloroso viaggio.

Messe insieme le tre lettere, consegnate ad ogni nuovo nipote in occasione della prima comunione di ciascuno, si leggono come la trama di un filo ininterrotto, l’eco di una memoria che si prolunga, una traccia ancora aperta, un testimone che si passa fra le generazioni, come una onda lunga, gonfia di emozioni e inquietudini, e carica di speranze che formano il destino di ogni vita. Sono, quelle lettere, il ricordo e la testimonianza di prove dolorose, di tempi difficili, di gesti ideali, di tragedie collettive, di patimenti e solitudini, e di coscienze salde, di passioni civili, di speranze non tradite e solidarietà praticate.

E si parla di giovani vite, di persone amate, di un padre morto di fatiche e torture, e di un figlio “diverso” i cui “occhi non vedono ciò che noi guardiamo e guardano cose che noi non vediamo” e che forse a lui fanno vedere “nella luce del tramonto quel mondo che gli altri vedono nella luce dell’alba”. Sono parole di dedica ai “disabili che non lottano per diventare normali, ma per essere sé stessi”.

Quelle lettere sono una straordinaria avvertenza contro la stupidità e la disumanità che, dal percorso tragico della scala di Mauthausen alle discriminazioni dell’handicap, costituiscono un agguato inesorabile, una linea d’ombra ineludibile della nostra condizione umana.

Le immagini dei morti nella Resistenza e nei campi di sterminio, suggerisce Trebeschi ai nipoti, muoiono nella memoria con noi e forse prima di noi. Eppure, aggiunge, è quel vento che dobbiamo inseguire per un imperativo etico, perché crediamo al permanere di ogni vita spenta nella memoria di Dio, ma anche perché solo il nostro ricordo, il nostro dolore collettivo per loro, può preservare il loro breve passaggio sulla terra.

Cesare è stato, fra le persone che ho incontrato, il più autorevole biblista laico. Ha citato in tutti i suoi scritti, le massime del vecchio e del nuovo testamento. La Bibbia è il libro dei libri. Anche per questo il dialogo con lui era quasi sempre spiazzante. Il suo pensiero nasceva da angolature imprevedibili, pescate in profondità.

Trebeschi è stata una delle personalità più autorevoli del dopoguerra. Ha percorso il secolo breve testimoniando con pienezza il senso della cittadinanza. Fu avvocato di prestigio, Sindaco della città, Presidente della Provincia, Presidente dell’Ateneo, Presidente della Azienda Servizi Municipalizzati.

E fu un innovatore di straordinario talento e di forte ingegno. Dedicò studi originali agli “usi civici”, le regole con cui le autonomie locali nei secoli hanno garantito convivenza civile e sopravvivenza economica. Fondò i centri di assistenza agraria, una sorta di cooperative ingegnose per lo sviluppo agricolo e riscaldò una intera città col teleriscaldamento, primo esempio in Italia di produzione di acqua calda incanalata in ogni edificio urbano.

Lo aiutò una concezione democratica nutrita di una mai tradita responsabilità individuale che è uno dei principi fondamentali del cattolicesimo democratico e del cristianesimo come aspirazione al primato del bene comune e alla universalità dei progetti di gestione del territorio.

Per questo fu il primo Sindaco in grado di portare ad una udienza papale cattolici e comunisti. Per questo non rinunciò a votare, in solitudine, contro la fusione fra ASM di Brescia e AEM di Milano. Per questo, quando venne chiamato alla presidenza del collegio sindacale della Banca Popolare di Brescia fu il solo a votare contro la trasformazione di quella banca cooperativa in società per azioni.

Era un fautore colto e attrezzato del valore delle autonomie inteso come la capacità di dare alle economie locali il senso di aziende il cui fine non è limitato alla costruzione di utili, ma dare sostegno alla crescita collettiva della società.

Fra i tanti scritti rivelatori del suo originale sguardo sul mondo, ve n’è uno, fra gli ultimi, raccolto in un volumetto dal titolo “Storia e leggenda del buon ladrone, patrono degli avvocati”. Narra la storia dell’incontro casuale nella grotta di Betlemme fra Maria che sta per partorire e i due ladroni che un giorno finiranno crocefissi accanto al Bambino che sta per nascere. Le pagine del racconto sono una memoria probatoria intorno ad una certa concezione della vita. Che nasce da lunghi percorsi interiori e cresce nell’intreccio con le occasioni (montalianamente intese), che a ciascuno vengono dispiegate.

Si diventa ciò che si è perché si fa esperienza della “philia”, (nel caso di Cesare, dalla mamma Vittoria al padre Andrea), e dagli insegnamenti che possono scaturire da quanti incontriamo nelle vicissitudini di ogni giorno della nostra vita. 

Da Franco Salvi a Fabrizio De Andrè, dai personaggi della politica a quelli della spiritualità, dall’avvocatura o dalla magistratura, da Borges a Seneca, da Sant’Agostino a Mons. Ravasi, da Auschwitz al Golgota, Trebeschi evoca e accosta, in quella plaquette, nomi e storie che non si sono mai incontrati, collega vicende e destini di epoche diverse, muove le sue pagine da domande non solo storiche, ma etiche, esistenziali, religiose, di quella religiosità umana che è il segno della “piètas”, senza la quale non c’è giudizio e non c’è riscatto. 

L’ingresso dei ladroni nel Regno non è forse il rovesciamento della logica di un mondo che ha provveduto ad innalzare Cristo sugli altari, dimenticando di cercarlo tra i vinti, gli oppressi, i prigionieri, gli umiliati, gli offesi, i peccatori?

Questo testo di Trebeschi affascina e inquieta per l’intensità dello sguardo obliquo, capace di quella luce diagonale che lascia emergere le ombre di ciò che si indaga, e aiuta a comprendere che l’avventura umana è sempre, allo stesso tempo, (come nella “Tregua” di Primo Levi), la storia dell’esodo e della Odissea, dell’itinerario alla terra promessa e del “nostos” verso casa.

 

Tino Bino

Persone, Edizioni La Quadra