Il mio punto di vista, analizzando le posizioni – destra, centro, sinistra – di cui si parla, parte  dalla la cultura liberale, con la quale si è fondata l’Italia unita, che nell’epoca attuale è stata  superata e compressa da trent’anni di “globalizzazione senza regole”, che ha promosso  l’accumulazione finanziaria nelle mani di un numero sempre minore di finanzieri, che  governano attualmente il settore tecnologico, il settore della produzione delle armi, quello  della ricerca sanitaria e in parte quello “alimentare alternativo”, inchiodando a tali scelte  grandissima parte dell’umanità. 

L’idea liberale, nata in Gran Bretagna e in Francia e teorizzata da Montesquieu, con la divisione  dei poteri, e la definizione della “democrazia”, che non può prescindere dall’attribuire il potere  delle scelte al popolo, alla fine del XX secolo viene gradualmente conculcata “a vantaggio” di  un aspetto, anche importante, che è la “governabilità” e quindi l’azione dei governi, che  dovrebbero “governare” per risolvere i bisogni del popolo. 

Ma oggi i governi devono rispondere ai grandi centri di potere economico-finanziario  internazionale, che fanno le scelte secondo le proprie esigenze di convenienza e pretendono il  rispetto dei tempi, secondo una efficienza industriale e commerciale, i quali non possono  essere rallentati dal lavoro parlamentare. 

Con l’opzione dell’efficientismo si instaura la dittatura finanziaria internazionale, alla quale non  si sottrae, per molti aspetti, nemmeno l’UE, che ancora non ha trovato il modo e il tempo per  democratizzare il ruolo della Commissione Europea, né ci sono governi di destra o di sinistra o  di centro che hanno la forza di sottrarsi a questa dittatura. 

Quindi, per questi aspetti, le disquisizioni tra destra e sinistra e centro sono un puro esercizio  dialettico. 

Peraltro, la classe politica internazionale ha tentato di “de-responsabilizzarsi” con la creazione  di “autorità indipendenti” che scelgono e legittimano ogni genere di “tariffa sociale” (v. Energia 

in Italia) e ogni imposizione generalizzata (v. ultima proposta del regolamento dell’OMS, che  pretende che le sue decisioni siano applicate obbligatoriamente erga omnes, superando il  diritto degli Stati membri di decidere diversamente). 

La responsabilità del sistema internazionale della “globalizzazione senza regole” è di tutti i  governi di tutti i Paesi, che hanno aderito al WTO dalla costituzione ad oggi senza differenza di  colore partitico. 

La “globalizzazione senza regole” è anche fautrice della “cultura woke” e bisogna dare atto a  due filosofi Zygmund Bauman (la società liquida) e Gianni Vattimo, mio collega in PE, che  parlava del “pensiero debole” della società attuale, che hanno teorizzato che si sarebbe  formata una società, nella quale si sta realizzando velocemente il “relativismo assoluto”, con  licenza per l’ossimoro, che esprime la volontà di mettere in discussione tutti i principi  esistenziali, anche quelli naturali, che valgono per tutti gli esseri viventi e non solo per  l’umanità (una Università statale italiana pretende di istituire un registro per i bambin*- l’asterisco evita la definizione del genere- dai 4 ai 14 anni per scegliere il sesso: un “registro  gender”; siamo all’assurdo). 

Perché la “globalizzazione senza regole” è responsabile della “cultura Woke”?  

Perché i sistemi produttivi hanno la necessità di semplificare i processi per velocizzare le  produzioni e i consumi; i linguaggi devono essere uniformi e il linguaggio informatico con i  processi digitali ha abituato a lavorare secondo schemi imposti agli utenti su scala mondiale. 

È stato facile per il campo amministrativo, contabile, finanziario; sarà più difficile uniformare le  abitudini, i gusti alimentari, dell’abbigliamento, anche se con la Coca-Cola, il Mc-Donald, il  tessuto Denim sono state impiantate le fondamenta della creazione del presupposto  dell’uniformità.  

Lo scoglio più difficile da eliminare è la cultura e la storia dei Paesi e delle comunità e a questo  si è pensato di attivare la “cancel culture”, negando quello che è il presupposto essenziale  dell’evoluzione, cioè lo scambio di conoscenza e di informazione tra diversi e, eventualmente, le possibili integrazioni. 

Vi sono attualmente correnti di pensiero che ritengono che l’unica evoluzione possibile sarà  quella dell’AI, che dovrà trovare i destinatari disponibili a recepire i risultati, che non potranno  essere individualizzati, ma prevalentemente uniformi. 

Il socialismo attuale, non so fino a che punto si possa chiamare tale, ha dovuto avere una  ristrutturazione culturale – per usare una espressione eufemistica – dopo la caduta del Muro di  Berlino e il fallimento del comunismo reale; in Cina il regime maoista è applicato  nell’organizzazione statuale e sociale, mentre nel settore economico le regole imposte dal  WTO sono quelle uguali agli altri Stati e quindi regole di mercato, oltretutto liberista. 

Anche i governi a guida socialista hanno subito la “globalizzazione senza regole” e per molti  aspetti ne sono stati i fautori, come l’arcipelago “liberal” degli Stati Uniti e per l’UE il fondamentalismo ecologico che ha messo in ginocchio tutto il settore industriale, con i risultati  che registriamo. 

Pertanto, il dibattito “destra-sinistra-centro” ha un senso se si ammette che la situazione  politica mondiale ha radicalizzato le posizioni e quindi tanto la destra che la sinistra esprimono  posizioni estremiste, radicalizzando anche la scelta elettorale di quel nucleo minoritario che  va a votare. 

Il centro è altra cosa; una espressione per definire il centro è “l’interclassismo” e le forze  politiche di centro non si definiscono mai rappresentanti di una classe, come avviene per la  destra e la sinistra (la classe dei padroni e la classe operaia). 

Il ceto medio, che la “globalizzazione senza regole” ha impoverito e schiacciato nella parte  bassa della scala delle classi, è rappresentato prevalentemente da quella parte di elettorato  che non vota, perché non si riconosce nei radicalismi attuali – non solo in Italia, ma nel mondo  - ; il ceto medio desidererebbe un “centro politico” di rappresentanza e mediazione tra le varie  classi, che, al momento almeno in Italia, non c’è (i Partiti democristiani europei, a partire dalla  Democrazia Cristiana, hanno sempre attuato “l’economia sociale di mercato” in UE e nei loro  Paesi). 

I dibattiti di Milano e di Orvieto, annunciati con grande propaganda, hanno rappresentato la  sofferenza dei cattolici che si erano ritrovati nel PD, dopo la Margherita, e che non hanno più  cittadinanza politica con la segreteria Schlein. 

Né penso che tale convivenza attualmente sia possibile, perché il radicalismo delle posizioni  attuali del PD e di tutta la sinistra non potrà avere delle convergenze da parte dei cattolici,  almeno nell’ambito gender, eutanasia, e in tutta quella specifica prospettiva del transumano e  del postumano; i cattolici e in generale i cristiani, non possono assolutamente prescindere  dall’affermare la primazia della tutela dell’umanità all’interno della tutela del Creato. 

È da apprezzare la posizione attuale di Forza Italia, il cui segretario si presenta a Caltagirone  per ricordare la nascita del Partito Popolare di Luigi Sturzo; comunque resta ancora da fare  molto a questo partito, perché attualmente è alleato con i Patrioti di Orban che sono contro  l’UE. 

Penso che sia necessario declinare un progetto di società diverso dall’attuale, dove i cittadini  abbiano la possibilità di confrontarsi in partiti politici democratici (oggi non lo sono; sono partiti  personali); possano discutere delle scelte future della società per consentire che tutti abbiano  la possibilità di accedere sempre ai massimi livelli sociali. 

Per realizzare questo sarà necessario ripensare tutti il sistema dei rapporti di lavoro, anche  prevedendo una partecipazione con un azionariato diffuso; tutto il sistema previdenziale, alla  luce dei sistemi lavorativi, nella prospettiva dell’aumento della speranza di vita; bisognerà  ridurre drasticamente il precariato e prevedere nella mobilità del lavoro la tutela del lavoratore nel periodo di vacanza, modificando il sistema della disoccupazione; bisognerà valutare la  riforma del sistema del credito, per favorire il tessuto delle piccole e medie aziende. 

Sarà necessario ridimensionare il gigantismo economico (perché la regola Too big to fail non è  valsa negli USA per Lehman Brothers, né in Cina per Evergrande Group) e limitare su scala  mondiale la percentuale di commercio del settore rispetto al livello mondiale (la percentuale  del 10% fissato dall’UE per la commercializzazione di un prodotto mi sembra troppo alta;  infatti, dieci aziende si possono mettere d’accordo e coprire con un oligopolio tutto il mercato,  escludendo tutte le altre). 

Questi sono alcuni punti per una politica di centro, ai quali vanno aggiunti quelli che riguardano  l’aspetto sociale, della organizzazione dei servizi, della ridefinizione dei compiti degli EE.LL. e  delle risorse per farvi fronte. 

Solo alcuni cenni di programma, perché un programma serio deve essere costruito con gli  operatori dei settori, che si assumano la responsabilità di portare avanti quanto condiviso e  deciso. 

Questa è la mia proposta per discutere di “centro”; altro mi appare superficiale. 

 

Vitaliano Gemelli