Per 13 anni restò alla guida del Movimento femminile della DC, per circa cinque anni restò in carica come Ministro della Pubblica istruzione. In entrambi i casi una longevità non comune. Franca Falcucci è stata una personalità di spicco del panorama politico della prima Repubblica, protagonista di una vasta e complessa attività, sul piano politico ideale e realizzativo. Fu delegata nazionale del Movimento Femminile, senatrice, sottosegretario e poi Ministro della Pubblica istruzione, Presidente della Sezione italiana e membro del Consiglio europeo dell’Unione europea femminile.
Gli esordi
Nell’immediato dopoguerra rappresentò nella CGIL la corrente sindacale cristiana nella Commissione femminile nazionale dal 1946. Aveva maturato l’interesse per la politica durante gli anni del liceo, quando il fratello di una compagna di scuola l’aveva messa in contatto con i gruppi democristiani clandestini che frequentò fra il 1940 e il 1944. Quando cominciò ad avere contatti con i gruppi clandestini della Dc, lei stessa affermò, «riconobbi in questo movimento le ragioni profonde ed i valori che avevo maturato nel mio animo, come presupposto del mio impegno politico».
Nel Movimento Femminile della DC
Iscritta nel 1944 alla sezione DC di Trastevere, cominciò non ancora diciottenne la sua attività nel partito della DC. Nel 1945, con Clelia D’Inzillo, fu fra coloro che vennero chiamate “le ragazze della Maraglio”, instancabile organizzatrice di leve femminili. Nel marzo del 1947, al secondo congresso nazionale del MF della DC venne eletta nel Comitato centrale. L’allora delegata nazionale Maria De Unterrichter Jervolino, la nominò nel 1951 incaricata delle giovani. Nel primo convegno delle giovani democristiane che si svolse a Roma dal 22 al 24 ottobre del 1950, preparato sulla base di un vasto lavoro di indagine sulla condizione giovanile, svolto in ottanta province, Falcucci tenne la relazione principale dal titolo Istanze della nostra età «la civiltà moderna [affermò], come conseguenza di una evoluzione sociale e tecnica, offre al giovane un’ampia possibilità di realizzare sé stesso. Questa evoluzione porterebbe a delle gravissime disarmonie se ogni uomo, specie se giovane, non sentisse di dovervi partecipare con una presenza cosciente. Questa presenza si concreta in una sincera realizzazione della propria personalità (…)».
L’accento posto sulla realizzazione della “persona umana”, ispirata al pensiero di Mounier segnava, in quegli anni, l’apertura di un nuovo spazio di riflessione, soprattutto fra le avanguardie giovanili, sul concetto cristiano della dignità femminile concepito nei termini più ampi della realizzazione della donna come persona e come soggetto di responsabilità. Insegnamento, questo, appreso nella pratica sotto la guida di Maria Iervolino. Questo concetto diede senso, spessore, coerenza alla sua azione politica. D’altronde ella stessa affermò, in una intervista a Tiziana Noce, «Dossetti, Fanfani hanno contribuito tantissimo alla mia formazione, non parliamo di De Gasperi. (…) e ricordo che soprattutto nei primi anni era forte l’influenza degli autori francesi, di Maritain di Mounier».
Delegata nazionale del MF
Venne eletta delegata nazionale al X congresso di Roma, nel 1964. Come ha affermato Paola Gaiotti, fu un periodo in cui il MF conobbe un notevole salto di qualità anche nei dibattiti politici che animarono gli anni Sessanta. L’evoluzione della società metteva in evidenza i limiti di una pura parità giuridica, c’era il tema irrisolto del diritto di famiglia, sul piano del costume venivano alla ribalta le questioni della moralità sessuale, dell’inserimento professionale paritario. Il 1964 era anche l’anno in cui Paola Gaiotti De Biase pubblicava su Donne d’Italia il suo articolo dal titolo La questione femminile è una questione nazionale. L’approdo a questa consapevolezza era stata parte integrante dell’azione del MF nel suo ruolo essenziale di formazione, di studio, di sollecitazione verso il partito e verso l’opinione pubblica sui temi femminili, nella convinzione che solo un impegno responsabile del Paese avrebbe potuto avviarne la soluzione.
Una guida equilibrata, ferma e autorevole. Così emerge la sua leadership nel MF. Seppe tenere unito il Movimento in momenti difficili, contenendone spinte centrifughe che avrebbero compromesso anche l’unità del partito, ma senza rinunciare per questo a far sentire la propria voce, anche di dissenso rispetto ai vertici. Con un cambio generazionale, Franca Falcucci succedeva alla dorotea Elsa Conci. L’allora segretario politico della DC Mariano Rumor accolse con favore la sua elezione ma non fu la vicinanza alla maggioranza del partito a determinare di per sé un salto di qualità del MF anzi, la presenza femminile fra le elette, anche negli organi del partito, restò esigua.
Ma ben lontano dall’appiattirsi sulle posizioni maggioritarie, la guida Falcucci vide istanze sempre più critiche rispetto ai pericoli delle derive correntizie del partito e sui grandi temi che agitavano le coscienze soprattutto femminili in quegli anni, in particolare sulle politiche riguardanti la famiglia. Durante gli anni Sessanta erano nati vivaci fermenti provenienti dalla base, dalle sezioni provinciali femminili. Si lamentava una sorta di delega fiduciaria della direzione DC sui temi femminili, di cui si occupava solo il MF. Era, però, difficile stabilire quanto questo significasse un autentico segnale di fiducia da parte del partito o un modo per defilarsi da un impegno organico verso la questione femminile, soprattutto con riguardo alla famiglia.
A farsi portavoce dei malumori fu Franca Falcucci in una lettera a Mariano Rumor. A scatenare le rimostranze di Falcucci era stato il contegno del partito di fronte al problema della riforma dei codici relativamente al Diritto di famiglia. Alla fine del 1968 il governo presieduto dallo stesso Rumor, dovendo fronteggiare l’avanzata del fronte divorzista, predispose una commissione di esperti in materia. Il MF puntò sulla partecipazione ai lavori di Tina Anselmi che, consigliera nazionale della Dc dal 1959, era già una personalità di rilievo nel partito, impegnata costantemente sui temi della famiglia e del lavoro femminile.
Le aspettative vennero presto deluse perché nella commissione del governo non venne inclusa nessuna donna democristiana, pur essendo il partito a conoscenza del fatto, come scrisse Falcucci, che il MF era stato «l'unico settore che in questi anni ha approfondito, con la collaborazione di giuristi, i problemi connessi alla riforma del diritto di famiglia», formulando anche proposte concrete. Il crescente malcontento non tarderà a manifestarsi al congresso nazionale di Maiori nel settembre del 1969.
Il XII congresso delle donne DC venne incentrato sul tema “Democrazia e partecipazione”, erano presenti 420 delegate. Già osservando i documenti preparatori, il congresso si preannunciava ricco di fermenti ed elementi di dibattito, qualche delegata aveva proposto di inserire nell’odg dei lavori anche la questione del cattolicesimo del dissenso, iniziativa prontamente dissuasa dalla delegata nazionale.
L'ultima giornata assunse toni accesi e vide interventi polemici. Quelli più palesemente contestatari verso i vertici del partito furono quelli di Paola Gaiotti De Biase e di Maria Paola Colombo Svevo. In particolare, riferendosi al partito, le argomentazioni di quest’ultima facevano perno sul fatto che una ristretta minoranza detentrice del potere e persuasa, «con scarso senso della realtà, di esercitarlo bene», metteva fuori gioco tutte le spinte provenienti dalla base: «Non intendiamo operare una rottura delle istituzioni esistenti. Vogliamo però che il sistema subisca un cambiamento. Vogliamo partecipare ai livelli decisionali». Colombo Svevo contestò anche la dirigenza del MF, troppo timida nel proporre al partito il vero punto di vista femminile tant’è che, ironizzò Svevo, i documenti del Mf erano «approvati sempre all’unanimità».
L’altro elemento di frizione tale da rasentare la spaccatura, si manifestò in occasione del dibattito sulla introduzione della legge sul divorzio. Molte delegate, soprattutto le giovani, si dichiararono favorevoli al nuovo istituto giuridico ma dichiararono al contempo di volersi uniformare alla disciplina del partito «per rispetto della maggioranza», una motivazione da cui risultava assente il fattore religioso-sacramentale che pure era al centro del dibattito all’interno del mondo cattolico. Fu opera delicata e complessa quella di Falcucci, ma riuscì a riportare ad un clima sereno la discussione che si concluse, non senza difficoltà, con la sua rielezione a delegata nazionale.
Senatrice
Da senatrice si spese energicamente contro l’approvazione della legge sul divorzio nonché sul tema della riforma del diritto di famiglia. La presentazione della legge Fortuna provocò un terremoto all'interno dei partiti di Governo. Al principio di giugno del 1969 si riunì a Roma la Direzione nazionale del partito per discutere la questione. L'intervento di Franca Falcucci fu cauto e si limitò ad esporre le ragioni per le quali andassero respinte le tesi divorziste. Falcucci affermava che non era la coercizione del diritto a preservare l'unità della famiglia. Il diritto doveva costituire semmai il punto di riferimento positivo della coscienza civile del paese, che non poteva non avvertire la gravità dell'indebolimento della famiglia, soprattutto in un periodo in cui la crisi dei valori umani appariva così profonda.
L'introduzione del divorzio avrebbe segnato non solo l'affermarsi di una legislazione, ma anche di una “concezione divorzista” e quindi «una spinta positiva alla disgregazione della famiglia». In quella battaglia, che pure rivelò la distanza della DC dal riconoscere il sentire del Paese, le istanze della società, le democristiane non rinunciarono alla propria identità culturale di riferimento, quella cattolica, che ne definiva in parte anche l’identità e l’azione politica.
L’atteggiamento con cui le democristiane arrivarono all’appuntamento e vissero i grandi rivolgimenti degli anni Settanta andrebbe analizzato più che misurando il grado di dissociazione fra fede/religiosità e prassi sociopolitica, tenendo conto del grado di problematicità conferito a tale rapporto. In cui gli stessi orientamenti pastorali dei vescovi, più che contraddetti, venivano filtrati dalla coscienza personale delle singole donne.
Al Ministero della Pubblica Istruzione
Franca Falcucci diresse il ministero di viale Trastevere dal dicembre 1982 al luglio 1987 e per tutta la durata dei governi a guida socialista. Nel dicembre del 1982, quando ottenne l’incarico di Ministro nel breve governo Fanfani sostituendo Guido Bodrato, poteva vantare già molti anni di esperienza all’interno del ministero, compresi cinque anni come sottosegretario alla Pubblica istruzione a partire dal terzo governo Andreotti. Nel campo scolastico e della educazione il suo nome è legato a interventi decisivi. Nel 1974 il ministro della Pubblica istruzione Malfatti, nominò una Commissione con l’incarico di svolgere un’indagine nazionale sui problemi degli alunni con handicap, Franca Falcucci ne fu la Presidente.
Un anno dopo la commissione produsse il cosiddetto “Documento Falcucci” che tuttora viene segnalato nella letteratura di settore e negli studi storici come il più avanzato a livello europeo e internazionale sulla disabilità. Il documento include di per sé, anticipandoli, alcuni temi chiave di quella politica per l’infanzia che vede il passaggio della persona di minore età da oggetto di protezione a soggetto di diritti che verrà consacrata a livello internazionale nel 1989, con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’Infanzia.
Dal Documento Falcucci discese la legge 517/1977 sulla abolizione delle classi differenziali. L’integrazione scolastica, per Falcucci, doveva essere considerata «un processo irreversibile» perché «coerente con il fine proprio della scuola che è quello di promuovere le potenzialità di ogni bambino, adeguando alle sue esigenze e alle sue possibilità le metodologie più idonee per suscitare la vita le spinta dinamica che deve alimentarne lo sviluppo».
L’integrazione scolastica dei bambini con handicap fu il tema sociale, politico e culturale di Franca Falcucci in quegli anni, fu un lungo cammino che avrà poi uno sbocco decisivo nella legge quadro del febbraio 1992 n. 104. Questa legge fu promossa e sostenuta dalla ministra per gli Affari sociali pro tempore Jervolino e seguita con assiduità da Leda Colombini.
Franca Falcucci riconobbe in quella legge del 1977 una conquista di tipo civile e culturale “Certo era cominciata che gli handicappati in classe nessuno li voleva, c’erano molte resistenze. Il problema non era dentro il mondo della scuola, ma fuori: culturale, nelle famiglie. Però ci abbiamo lavorato molto, prima di fare la legge abbiamo preparato a lungo il terreno; quindi, alla fine siamo riusciti a farla passare. Ci fu un clima positivo, anche nella fase attuativa, che poi ho vissuto direttamente, da Ministro>>. Era molto fiera di quella legge: «Ho sempre creduto nella scuola come luogo dove si sviluppano le potenzialità delle persone e nel diritto di tutti ad essere protagonisti della propria crescita».
Sono ormai diversi gli studi di settore che segnalano la riforma della scuola elementare come uno dei risultati più alti di Falcucci. La scuola elementare del 1985, quando furono approvati i nuovi programmi scolastici, venne concepita come luogo di accoglienza dell’alunno inteso come persona globale. La programmazione didattica prevista dai decreti delegati, la libertà didattica e la professionalità del nuovo maestro, grazie ai piani di aggiornamento, avevano lo scopo di rispondere a questa sfida. La scuola come luogo di valorizzazione delle potenzialità del fanciullo e della integrazione delle diversità.
Per questo la riforma prestò particolare attenzione al tema delle disabilità, mettendo a frutto la sensibilità politica e l’esperienza maturata da Falcucci, già testimoniate dalla legge che nel 1977 aveva abolito le classi differenziali. La sua fu una politica scolastica tesa al rinnovamento della scuola, pur rifuggendo il mito della riforma organica. La sua immagine venne rappresentata, in quel tempo, come poco adatta all’ansia di modernità che investiva il paese negli anni ’80.
Eppure, fu lei a introdurre l’informatica nelle scuole. Fu sua la decisione di investire risorse pubbliche materiali e intellettuali per introdurre gradualmente ma in modo diffuso le applicazioni informatiche nel sistema scolastico. Per fare questo, furono elaborati due piani sperimentali nazionali: il Piano nazionale informatico (Pni), lanciato nel 1985 e il Progetto ‘92 per l’istruzione professionale che, a partire dal 1988, avrebbe modificato radicalmente (anche sul piano culturale) l’impostazione del settore.
La sua sensibilità normativa, tuttora persistente nel nostro ordinamento, ha inaugurato la stagione di una scuola aperta e inclusiva, della cultura della inclusione. È un tema su cui, lo sappiamo, si misura la maturità di un paese democratico, la sua democrazia sostanziale.
Stefania Boscato