“Ma ghela ancora, quela lì?” disse don Vittorio Cristelli una sera d’inizio 1988 a Villa San Nicolò, guardando la televisione accesa di sabato su Canale5, conclusi per quel giorno i lavori della Scuola di preparazione sociale. Quela lì, ossia Raffaella Carrà che Berlusconi aveva da poco strappato alla Rai, c’era ancora eccome e continuava a proporre (esportandolo anche in Spagna) il gioco del “Se fosse”, che qui idealmente proseguiamo applicandolo al nostro personaggio.
Dunque se fosse stato un cantante, che cantante sarebbe stato don Roberto Marchesoni? Io credo un cantante confidenziale, come chiamavano allora quelli che precedettero gli urlatori. Un prete che amava la dimensione “a tu per tu”, cara a cara, il colloquio intimo e continuativo. Si potrebbe definirlo un padre spirituale, se ancora ne esistono, come lo fu padre Agostino da San Marco in Lamis per padre Pio da Pietrelcina.
Ma don Roberto amava anche i piccoli gruppi, i cenacoli, specie quelli che riprendevano i temi popolari. Come Giovanni Ciccolini egli certamente pensava ad un “approfondimento dell’anima popolare nella vitale corrente della tradizione cattolica e italiana”. Pare ancora di vederlo don Roberto, abbandonata per un attimo la sua amata pipa, unirsi al canto comune, se pur talvolta sgangherato, di noi montanari occasionali, a San Martino di Castrozza o a Soraga. “La Rizolina, la Rizolàda, l’è enamorada del caretèr”. La sente el scioco de la scuriàda, mentre noi sentivamo come una carezza la presenza amica e protettiva del don. “E per tutto nel cielo sonoro saliva un cantare lontano”. In quei momenti persino Pascoli era lì con noi, anche se Giussani – com’è noto - amava di più Leopardi.
Il sogno del piccolo Bergoglio, lo sappiamo grazie a Fabio Fazio, era quello di diventar macellaio, anche per via del fascino esercitato in lui da quella borsa in cui vedeva infilare i danari avuti dalle clienti. Non so quale fosse il sogno di don Roberto Marchesoni, ma il suo ruolo - ce l'ha spiegato il vescovo Lauro, che fu suo allievo all'Arcivescovile - è stato quello del profeta. Profeta - intendeva - di una nuova Chiesa, oggi finalmente realizzata, in cui l'idea è sostituita dall'esperienza, dalla "realtà". Non so se il compianto Marchesoni si sarebbe riconosciuto in questo ritratto, ma bisogna dire che per lui la fede doveva diventare anche cultura e giudizio. E la Chiesa, uscire da quell'insignificanza in cui invece oggi sembra impantanata. Il primato accordato all'esperienza, inoltre, non gli impediva di apprezzare dottrina, devozione e religiosità popolare in quanto vissute nell'alveo della tradizione.
Nel vasto spazio aperto del Seminario minore (già allora abbandonato), proprio dietro la sede di via Madruzzo, mentre suo padre si dava da fare con la pulizia e le piante, don Roberto aspirava il fumo, e intanto pensava, rievocava, incontrava, inviava. Mi mandò, ad esempio, per un’équipe del Clu a Chiesa di Valmalenco, che raggiunsi in autostop dal passo del Tonale. Lì Giussani non mi vide né considerò; andò meglio al povero Luigi Amicone, che proprio in quell’occasione fece al Gius la domanda (o diede la risposta, non ricordo) giusta, di cui poi i giornali del movimento parlarono a lungo. Un po’come accadeva alla trentinissima Chiara Lubich, che in varie occasioni disse, parlando ai Focolarini e ai Gen: “Adesso viene la Eli e mi aiuta a far le domande. Lei fa le domande e io dico le risposte”. Come lascia intendere il professor Tangorra, i movimenti sono una sorta di “Arrivano i nostri” della Chiesa.
Don Roberto allora rievocava gli anni suoi del Seminario, le tentazioni che anche allora si presentavano a un giovane aspirante al sacerdozio. In quel luogo già frequentato da schiere di ragazzini (erano già in talare, come Rolando Rivi?) e ora pressoché deserto, mentre l’estate s’annunciava col profumo intenso dei gigli di sant’Antonio proveniente dalla vicina cappella, il tempo pareva essersi fermato. E io, ripensando a quei giorni assai lontani, ancora cerco un po' d'Africa in giardino, tra l'oleandro e il baobab, come facevo da ciellino. Ma qui c'è gente, non si può più. Stanno innaffiando le sue rose, ma don Roberto chissà dov'è.
Claudio il forlivese, che l’ha preceduto e ne condivideva la fede, risponderebbe che il Signore ha messo un seme nella terra del suo giardino. Che il Signore ha messo un seme nel profondo del suo mattino. “Nella foresta – scrive Alphonse de Lamartine – c’è già il fasciame per una nuova barca, e vele nella canapa che germoglia”.
di Ruggero Morghen