Esaminando la storia delle dottrine per mezzo delle quali gli studiosi di filosofia, di politica e di dottrine giuridiche, hanno cercato di individuare i fondamenti del “diritto” (dell’insieme delle norme che devono regolare il vivere in società degli esseri umani) incontriamo due grandi correnti di pensiero che si pongono reciprocamente in antitesi:
- la corrente del diritto naturale o giusnaturalistica;
- la corrente del diritto positivo o giuspositivistica.
In questa sede non parleremo delle molteplici articolazioni nelle quali ognuna delle due correnti sopra indicate si è espressa nelle varie epoche storiche.
Il nostro discorso si limiterà ad una descrizione schematica delle tesi principali che ciascuna scuola di pensiero ha sostenuto in merito ai fondamenti del concetto di diritto; e ad alcune riflessioni sul significato teorico e pratico del dibattito su tali tesi ai giorni nostri.
Entrando subito nel vivo del discorso, diremo che il problema centrale attorno al quale si è sviluppato il confronto e lo scontro ideale di cui parliamo è quello dell'individuazione del “criterio di validità” delle leggi vigenti e quindi del criterio in base al quale può essere fondato “l’obbligo di obbedienza” alle leggi di un determinato ordinamento giuridico.
Le correnti giusnaturalistiche sostengono la tesi qui di seguito esposta.
Esiste il diritto (un insieme di norme o regole di comportamento) che viene chiamato “naturale” (in latino jus naturale) che è “intrinseco alla natura” del vivere insieme (del convivere) degli esseri umani. Diritto non scritto e non dettato da nessun potere costituito; tale diritto deve sempre essere ritenuto il fondamento primo inviolabile e inderogabile della validità di qualsiasi forma di diritto positivo (jus in civitate positum) ossia del diritto che sia stato dettato (emanato) da una qualsiasi autorità costituita in una società stabilmente organizzata (denominata nelle varie epoche come polis, civitas, res publica, ordinamento giuridico, stato).
Secondo la tesi in parola: solo le leggi che possono essere giudicate conformi alle norme del diritto naturale devono essere giudicate valide e meritano obbedienza; mentre le leggi del diritto positivo contrastanti col diritto naturale sono invalide e possono - e talora devono - essere trasgredite.
Le correnti giuspositivistiche sostengono la seguente tesi antitetica alla precedente.
Il diritto naturale non esiste (non può essere considerato giuridicamente vigente) e pertanto qualsiasi legge posta in essere da un ordinamento giuridico vigente (ossia capace di farsi riconoscere come “esistente” e capace di indicare i criteri di validità dei propri atti normativi e di garantirne l’efficacia) è valida e va obbedita e i suoi trasgressori vanno legittimamente puniti.
Le motivazioni teoriche che stanno alla base dell’accettazione o del rifiuto dell’una o dell’altra teoria sono intuitive.
- A sostegno della tesi giusnaturalistica sta soprattutto la seguente riflessione.
La storia ci presenta frequentissimi esempi nei quali ordinamenti giuridici positivi, (stati), hanno emanato leggi sulla base delle quali sono state compiute, azioni di singoli, di gruppi, o anche di “rappresentanti delle pubbliche istituzioni” che devono essere giudicate come “ingiuste”, “contrarie al senso di umanità” e tali da poter essere qualificate, in certi casi, come veri e propri “atti criminali”; tali leggi non meritavano di essere giudicate leggi valide perché contrarie al “diritto naturale” e per questo non avrebbero dovuto essere obbedite, ed anzi avrebbero dovuto assolutamente, essere disobbedite. Vengono a tale proposito citati come esempi: i soprusi, gli atti di violenza dei regimi dispotici o totalitari di epoche diverse; commessi mediante l’emanazione o l’applicazione di leggi “valide” secondo quegli stessi ordinamenti giuridici, ma assolutamente ingiuste secondo un qualunque pensare e sentire che possa essere giudicato “umano”.
- A sostegno della tesi giuspositivistica si argomenta.
Quando si parla di norme di diritto naturale non vengono definite né la fonte di tali norme né le caratteristiche precise che i comportamenti umani devono possedere per poter essere giudicati come legittimi (giuridicamente validi in quanto conformi al diritto dettato da un qualsiasi “ordinamento giuridico”). Pertanto il diritto naturale, quand’anche potesse essere considerato “vigente”, non essendo riconoscibile nelle sue fonti costitutive e non indicando precisamente quali siano le azioni conformi o meno alle norme giuridiche, rimane un insieme di concetti inutilizzabile per produrre validi strumenti di regolazione dei rapporti umani.
Occorre poi tener presente, continuano i giuspositivisti, che una qualsiasi entità socio-politica (sia essa definibile come polis, civitas, res publica, stato ecc.) non può continuare ad esistere e a funzionare se i suoi componenti si ritengono liberi di violarne le leggi “positive” ogniqualvolta (secondo il loro soggettivo giudizio) non le ritengano valide in quanto “non conformi” al “diritto naturale”.
Gli stessi osservano infine che il concetto di giustizia sul quale il diritto naturale pretende di fondarsi è un concetto che può stare a fondamento di giudizi “etici” (morali) del tutto “estranei” al mondo del diritto.
In ogni caso, occorre tener presente che le norme “etiche” rimangono “indeterminate nel loro contenuto” e “relative”: soggette a continue variazioni nel tempo e nello spazio a seconda del prevalere nelle diverse realtà sociali e politiche di una o di un’altra “etica” o “morale” ispirata dalle più diverse e mutevoli “concezioni ideologiche del mondo”. Pertanto, concludono, poiché non esiste un’etica da cui derivino norme universalmente valide e comunque determinate nelle loro prescrizioni, si deve dire che il diritto naturale semplicemente non esiste, o comunque che le sue norme non possono valere come “norme di diritto”.
Nel prossimo capitolo l’analisi critica delle due tesi sopra esposte.
(Continua)
Giorgio Pizzol