C'è qualcosa che non torna nel modo di procedere delle forze politiche nella definizione della nuova legge elettorale.
Una riforma che, prima ancora di obbedire alle altalenanti dialettiche politiche, appare dettata dalla recente modifica costituzionale con cui si è irragionevolmente sfregiato un impianto istituzionale che aveva una sua logica ed un suo armonioso equilibrio e che consentiva ampia rappresentatività ad ogni angolo del paese e una congrua presenza delle forze politiche nelle commissioni parlamentari.
Ma, nella contingenza particolare, si palesa anche come un'opportunità nel predisporsi come virtuoso strumento per consentire governi di coalizione non polarizzati ne’ sui versanti del populismo e del sovranismo delle destre,né sul giustizialismo e trasformismo e sulle proverbiali ambiguità di Pd e 5 stelle che,come non mai, hanno dominato in questa legislatura.
E non è difficile intravederne la ragion d’essere.
Con la presentazione del Pnrr l’Italia si è avviata in un percorso obbligato, dove è cruciale il rispetto degli impegni assunti, condizioni ineludibili per ricevere i 250 miliardi di Euro da destinare al programma di ammodernamento infrastrutturale e produttivo del paese, oltre alle precipue riforme nei settori più importanti dei servizi pubblici e dell’amministrazione.
Un compito, peraltro, gravoso di portare a termine,nel massimo rispetto di tempi, assai stretti, opere e riforme ordinamentali.
Ma che appare talmente miracoloso che rende tutta la delusione di una classe politica dominata da obiettivi di parte, espungendo nel prossimo immediato futuro l’unico sistema elettorale capace di valorizzare aggregazioni moderate, non divisive preservandoci da partigianerie e settarismi e da fasulle stabilità del sistema, che nuocerebbero ad un virtuoso percorso capace di portare a termine nel migliore dei modi l’opera di profonda trasformazione degli assetti strutturali e normativi del nostro paese, come disegnati nel Pnrr.
Mostrando, qualora ce ne fosse ancora bisogno uno scenario politico, difficilmente disposto a dismettere vecchie abitudini a detrimento dell auspicato “rinascimento” generale del paese.
Dinamiche politiche, sempre più con il fiato corto, magari capaci di veicolare improvvisi entusiasmi, sempre più facilmente seguiti, poi, da immediate delusioni nell’opinione pubblica, ma divenute il faro su cui misurare con la periodicità settimanale dei sondaggi e degli opinion maker,di volta in volta, posizioni ed orientamenti in un tema così delicato per l’espressione del voto popolare e di governi di più larga condivisione.
Insomma, ancora una volta, il trionfo di un costume politico ambivalente che fa e disfa, fragili tessiture da una settimana all’altra, con tutta la confusione e il disorientamento che ne riesce a generare.
Così i modelli elettorali si accavallano nella rassegna quasi settimanale che impegna le forze politiche in questa confusa ambivalenza,alla ricerca di quel voto in più per battere il partito concorrente, l’alleato o la coalizione avversaria.
Con l’amara constatazione dell’evanescenza, che oramai possiamo dare per certa, del proporzionale.
Una scelta che finisce per mostrarsi irrazionale in una fase così delicata ove è necessario rafforzare un baricentro che sia da riparo a estremizzazioni da una parte o dall’altra degli schieramenti per i futuri governi che da qui alla prossima legislatura si troveranno a gestire la ricostruzione del paese.
E a ben ragione Giorgio Merlo, nell’interessante e lucido articolo di ieri mette ben in risalto che: “ Adesso..la convenienza ultima pare essere quella di ripuntare sul maggioritario – almeno da parte della ex maggioranza giallo/rossa – dopo aver predicato la necessità e quasi l’obbligatorietà di procedere con il proporzionale. Ma, come ben si sa, in un contesto politico dominato dal trasformismo e dall’opportunismo, quello che si dice nella settimana precedente viene puntualmente smentito e rinnegato nella settimana successiva”.
E così prosegue: ”se dovesse essere confermata sostanzialmente la pessima legge elettorale varata nella scorsa legislatura – il cosiddetto “rosatellum” – seppure con qualche marginale correzione, dovremmo arrivare alla conclusione che il maggioritario resta l’impianto centrale della legge. E, di conseguenza, con il maggioritario occorrerà fare i conti”.
Ed infine così osserva: ”..forse, è necessario ed indispensabile pensare, sin d’ora, di dar vita ad una lista/soggetto politico di centro che sia in grado di convivere con un sistema maggioritario che inesorabilmente dovrà fare i conti con le coalizioni in campo. Certo, esiste sempre la possibilità di giocare un ruolo puramente testimoniale..un ruolo politicamente insignificante ed elettoralmente irrilevante. Come ne abbiamo conosciute a grappoli in questi ultimi anni, soprattutto sul versante moderato e di centro. Esperienze che continuano tuttora e che, come da copione, sono destinate a restare del tutto marginali nello scacchiere politico italiano”.
Non a caso allora grande valenza assume il dibattito che sta attraversando il mondo cattolico, o meglio quella parte che è impegnata a ridare vitalità e prospettiva alla “mai sciolta DC” , intorno al ruolo politico e sociale dei “popolari” e del centro.
E ovviamente in questo quadro non possono ignorarsi le due tendenziali linee di indirizzo organizzativo e progettuale che con toni, non sempre paludati, si fronteggiano trovando definizione nel Manifesto Zamagni per un verso e nella nota intervista, di qualche anno fa, al Corriere della Sera del Cardinale Ruini.
A ben vedere in entrambe le declinazioni si identificano due modelli organizzativi, poco sovrapponibili che rendono chiaro il rapporto più o meno stretto sia con le gerarchie che con la realtà sociale.
Laddove il discrimine diviene la ricerca”.. di una base culturale per un possibile percorso di rigenerazione innovativa di una presenza politica “autonoma”nello scontro in atto nella società rispetto ai rischi della destra sovranista” ( così Lorenzo Dellai in Il domani d’Italia del 4 nov. 2019)
Ben altro tono assume la posizione del Cardinale Ruini nelle cui tesi si traduce l’altra linea tendenziale. In quell’intervista di qualche anno fa, Egli partendo dal dato sempre più inarrestabile di una “scristianizzazione” della società esprime serie preoccupazioni per quelle direttrici progettuali pronte a misurarsi laicamente con le sfide della modernità.
Come fosse quasi inevitabile e “..rassegnato ad una prospettiva nella quale la difesa di una visione della società viene affidata solo alla capacità “negoziale” della gerarchia ecclesiastica con il Potere” (così Lorenzo Dellai in Il domani d’Italia,come sopra citato).
Fino a propiziare, come fece per Berlusconi, un dialogo con Salvini.
Insomma come a dire, meglio scegliere il male minore.
Del resto nella comparazione tra i due schieramenti non è difficile intravedere una maggior propensione del leader leghista ad una difesa della simbologia cristiana.
Certo stiamo parlando di una intervista datata ma non è difficile ricavarne la perseveranza di questo ragionamento se come ormai appare presumibile, la condizione di unica forza politica rappresentativa dell’opposizione dovesse portare ad un ribaltamento della leadership del centrodestra a tutto vantaggio di Giorgia Meloni.
Quello che appare ineludibile in questa logica è la retrospettiva del ragionamento nella quale sembra cogliersi che la difesa di una precisa visione della società può venire solo dalla capacità “negoziale” della gerarchia ecclesiastica con il Potere.
In tale analisi si coglie tutta la sfiducia nella capacità del laicato cristiano di operare per quel “nuovo umanesimo” più volte evocato da Papa Francesco.
Il Manifesto Zamagni parte dal presupposto contrario: è proprio nelle pieghe della società italiana che si può trovare il vero giacimento di risorse umane, culturali, sociali e anche politiche per costruire una “Proposta” al Paese.
E su questo versante troviamo attento anche uno dei nostri esponenti di spicco, Ettore Bonalberti,della segreteria nazionale, deluso doppiamente (come si legge in un suo articolo odierno su Il Domani d’Italia), dalla mancata formazione del gruppo parlamentare democristiano e dalle secche in cui si è impantanata la Federazione, rimasta in stallo nell’attesa del Congresso straordinario dell’Udc di cui non vediamo traccia nei suoi deliberati fino a questo momento.
Quello che si fa fatica a capire nel suo intenso fervore politico è quell’ingenuo affidamento nell’insistere su obiettivi che avevano a presupposto azioni politiche promesse( ma con, tra le pieghe di quei propositi, molte riserve mentali)mai mantenute, anzi date ormai per accantonate definitivamente.
Ora egli pervicacemente continua a vagheggiare un’inedita metamorfosi del glorioso partito che fu della Democrazia Cristiana: nella direzione di una identità politica dai contorni vaghi ed evanescenti, con il rischio di connotarsi in una tipica “ riserva indiana”; ora come testualmente: ”.. Ritengo che l’orizzonte ambientalista possa essere una nuova missione programmatica tale da giustificare l’azzardo di un nuovo partito espressione dei cattolici democratici”, nel prefigurare inediti percorsi ambientalisti: un nuovo “arcobaleno”?
Insomma come a voler, a tutti i costi, archiviare una storia ed un esperienza che invece a parere di tanti ha ancora una sua ragion d’essere in un rinnovato contributo di idee, di Know how politico e di coerenza progettuale e ideale.
Ma quel dualismo che prende corpo, come detto, dalle due diverse visioni organizzative e di proposta politica, ci pare poco raccordarsi, ad un’attenta lettura delle dinamiche in corso, con il proposito di rimettere in piedi un apparato organizzativo che riconduca lo sforzo politico di questi due anni, ossia, da quando si è tenuto il XIX Congresso, non solo alle radici di quegli ideali e quei valori, taluni non negoziabili, che stanno man mano evaporando in un magma indistinto di false tutele della persona, ma nel riproporsi in continuità, nel nome e nel simbolo, in una nuova esperienza che partendo dalle istanze e dai bisogni attuali guardi a come costruire al meglio il futuro dell’Italia.
Non sfuggendo a nessuno la consapevolezza di così ambiziosa sfida, argine a principi e valori irrinunciabili, oggi resi “liquidi”, come definiti da Zygmunt Bauman,e sempre meno percepibili nella confusione di un linguaggio fortemente intriso di demagogia.
Così che non è infrequente il sottile o sfrontato ricorso alle performance degli influencer e di Dj dell’ultima ora (caso Fedez-Rai, in occasione del concerto del 1• maggio)per alimentare artificiosamente la propaganda quotidiana nella suggestione di ingannevoli tutele o di soluzioni integraliste, traghettando politiche che accentuano disuguaglianze e iniquità.
In questa prospettiva, occorre che al più presto, in tutta la sua poliedricità, prenda corpo, nell’idea di paese che si riconduce agli ideali ed ai valori e che furono il faro per l’azione politica di cinquant'anni di governo, il programma, mettendone in risalto il denominatore comune ossia, la persona ed il bene comune come causa e fine dell’azione politica.
Un programma ed un progetto che costituisca anche il discrimine di possibili alleanze con coalizioni di centrodestra o di centrosinistra (al momento, data la prevalenza di posizioni estremizzate nell’uno e nell'altro schieramento, l’ipotesi appare assai impervia)anche a costo di restare come baluardo di valori, al momento, minoritari.
Senza però cadere nella facile tentazione di ripercorrere posizioni ancillari, già sperimentate in questi quasi trent'anni di maggioritario, che tanto hanno nuociuto all'identità culturale e agli ideali così inequivocabilmente rappresentati.
Così non possiamo non chiederci se in questa nostra epoca, caratterizzata da coscienze politiche mutevoli e “liquide” ed una classe politica adusa a polarizzare, se non talvolta ad estremizzare, taluni interessi su altri, giovandosi di messaggi che tendono a captare le emozioni più immediate, piuttosto che indurre riflessioni e ragionamenti, potrà bastare attestarsi prevalentemente sulla semplice tradizionale propaganda di sezione (Torino ci pare essere una virtuosa eccezione) senza battere, con la frequenza che si richiede, media e social e senza costituire stabilmente un organismo nazionale destinato a curare e coordinare la formazione di una nuova classe dirigente.
Anche se non appare sforzo da poco: tenere in conto che una buona metà dell’elettorato non conosce o non ha vissuto, per ragioni anagrafiche, la storia culturale e politica della DC.
Sebbene il rischio di non trovare adeguato ascolto v'è anche laddove si riesca ad avere spazi nei media.
Conta molto trovare un'idea guida per fare breccia nella coscienza collettiva. Non si spiegherebbe altrimenti perché esponenti di un certo spessore politico dell’area liberale, moderata e riformista non riescono ad andare oltre il 2-3%.
E lo stesso Berlusconi che per più di venti anni ha dominato il centro, ha subito una forte erosione del suo elettorato per l’effetto egemonico di tematiche securitarie, prima, e poi con l’avvento della pandemia,di politiche sovraniste e populiste strillate ai quattro venti in una visione liberista e individualista che penalizza il rapporto sinergico persona-comunità-territorio, che trova, invece, nell’Umanesimo integrale, di cui dovremmo essere fieri interpreti, la sua ragion d’essere.
Tanta sfida però porrebbe il problema di quale declinazione e identità dare al partito, riportandoci alla querelle tra “Identità nuova” e “Nuova identità” di cui ne abbiamo avuto ampio dibattito in seno alla Federazione.
Ma sicuramente lo spessore e il peso delle sfide odierne e future, in una società totalmente trasformata che attende nuove e convincenti risposte nella ridefinizione dei servizi pubblici, della pubblica amministrazione e dell’amministrazione della giustizia e nuove tutele nella sfera civile, economica e sociale della persona, della famiglia, del sistema produttivo e con essi l'attenta cura dell’ecosistema, non ci farà perdere il senso profondo e nobile di questa impresa epocale.
Per questo nessuna sfumatura sarà sicuramente tralasciata nel dibattito che impegnerà la prossima assise congressuale.
Una questione così cruciale non può però lasciarsi macerare fino a quel tempo senza tessere da subito relazioni e apprestare ponti con il mondo della produzione e del lavoro, le sue rappresentanze sindacali e i nostri partner del Ppe, anche in una comune visione geopolitica.
Insomma un lavoro a tutto campo sul territorio per un confronto diretto con gli operatori del mondo della produzione,del commercio e dell’agricolture e tutta la galassia delle cooperative ed il mondo del lavoro, nel perseguire un nuovo ed inedito modello economico che si ispiri, appunto, alla piena attuazione di un Umanesimo integrale, costruendo un virtuoso rapporto sinergico, tra pubblico e privato( la Confindustria lo dice da tempo, ma nessuna forza politica, pare, al momento,darle retta).
Ed ovviamente in questo dualismo convergente al programma di ripresa e resilienza, la persona al centro dell’azione pubblica e il bene comune quale fine e baluardo contro ogni tentativo di egemonia economico-finanziaria.
Diversamente se non si stabilisce e consolida un percorso comune, lasciando contrapposti gli interessi dei necessari protagonisti del mondo della produzione del lavoro e della famiglia, non potrà raggiungersi agevolmente efficienza ed efficacia nella riuscita di tanta scommessa con l’Europa e i nostri partners.
Un percorso ambizioso che può avvenire se il partito non si farà trascinare sul terreno surreale di inverosimili diatribe scaturite da superfetazioni singolari, fuori dalle regole statutarie e se saprà affrancarsi, nelle sue alleanze, da tutele o deresponsabilizzazioni insidiose o prevaricatrici, nella consapevolezza che sarebbe esiziale consegnarsi ad avventurismi o svendite del patrimonio di valori e di ideali che hanno radici lontane.
Né più né meno di come si fece nell’immediato secondo dopoguerra con illuminati statisti, da De Gasperi a Fanfani a Moro a Donat Cattin, questi, assai attento alle dinamiche del lavoro e delle questioni sociali (a lui, a Brodolini e Gino Giugni dobbiamo lo Statuto dei lavoratori).
Va da sé perciò che sara cura preziosa non svendere un così glorioso patrimonio di ideali e di valori a confronti sterili o nel prestarsi a subdoli disegni di prevaricazione.
Insomma nessuna ingenuità può avere ragione su una sfida coraggiosa che anche una parte astensionista dell'opinione pubblica attende nella riproposizione di un metodo che riporti coerenza, competenza e lungimiranza ad un paese in balia di una classe politica sempre più incline a disinvolture e spregiudicate contorsioni nei progetti e nelle proposte.
Ne abbiamo avuto conclamato esempio con l’ultima crisi di governo, quando è dovuto scendere direttamente in campo il Quirinale per sciogliere il nodo della formazione dell’esecutivo,
affidandolo a una personalità indiscussa come Mario Draghi.
Che sta provando a rimettere su un paese stremato ma la cui formula politica dell'unità nazionale non potrà sicuramente assicurargli una proiezione quinquennale, anche perché tra meno di un anno vi sarà il rinnovo del Capo dello Stato ed è prevedibile che tale esperimento di governo troverà il suo approdo, con tutti i rischi che la futura compagine governativa, espressione dell’attuale aspra polarizzazione, può riservarci, con tanto di incognite sulla buona riuscita degli impegni assunti con l’Europa.
Luigi Rapisarda