Tra le tante cose inedite che ci ha portato la pandemia, la sperimentazione di un governo di grande coalizione, è, di certo, la più impensata.
Con tutti dentro, tranne FdI e qualche cespuglio della sinistra piazzaiola.
L’occasione non è stata di poco conto, visto che c'è una gran messe di danari che l’Ue si appresta a versare in cambio di una seria messa a punto delle strutture cruciali del paese per superare tutte quelle ataviche inefficienze infrastrutturali e ordinamentali, vedi il caso della pubblica amministrazione e della giustizia, che frenano fortemente lo sviluppo del paese oggi più che mai bisognoso di ripartire senza passi falsi.
È d’uopo pertanto che trapeli la convinzione di un saldo sostegno al piano di ristrutturazione ordinamentale nei settori cruciali dei servizi pubblici senza i quali ogni sogno di aiuto finanziario al nostro paese svanirebbe.
Ma nella consapevolezza di questi irripetibili obiettivi si sta consumando, sotto gli occhi di tutti, un duello acerrimo tra i diversi fronti dello schieramento politico che sostiene il governo Draghi.
Il gioco è semplice.
Si punta al rialzo delle rispettive pretese con tanto di battage in piazza a rinfocolare vecchie acredini, cui si risponde con rilanci e pregiudiziali.
Poi, finita la commedia delle parti, ci pensa la finitura delle mediazioni, nelle quali il premier Draghi si spende in prima persona, a riportare tutto in modo digeribile per tutti:
che, detto in termini più concreti, vuol dire, per il governo, procedere con il corposo programma di misure concrete e credibili capaci di accreditarsi sempre più,sul fronte europeo, come un paese che finalmente comincia a fare sul serio, dall’altra ogni forza politica può sventolare la propria bandiera nel segno di una vittoria da intestarsi per il risultato ottenuto.
Ma a ben guardare in questo gioco delle parti fra le forze politiche di maggioranza il copione è sempre lo stesso, ognuno rivendica di aver vinto, come spesso traspare dalle rispettive dichiarazioni.
Così ha fatto Conte, Letta, Salvini e Berlusconi, seppur in toni diversi.
Ma è sotto gli occhi di tutti come Conte si sia avvitato su se stesso, in una strategia perdente assieme a quella parte del movimento 5 stelle che ormai è palesemente aggrappata alle poltrone, a qualsiasi costo.
Ed il costo è stato davvero alto.
È bastato un piccolo contentino con la previsione di una breve fase transitoria per smontare il castello di carta della minacciata uscita dalla maggioranza.
Ma di fatto si è dato il benservito al meccanismo mostruoso del processo senza termini,dopo il primo grado.
Letta, per la verità è sembrato andare un po' in sordina, almeno nelle querelle più roventi, preferendo trincerarsi dietro la strategia di poco respiro di Conte, continuando così a galleggiare tra apparente garantismo e peloso giustizialismo.
Mentre va dato atto alla Lega e a Forza Italia di essere stati molto determinati nella richiesta di una riscrittura più garantista della prescrizione dei reati, interpretando tutta quella parte di paese che da tempo osteggia riforme giustizialiste.
C'è poi molta fiducia sull’esito positivo dei referendum.
Ma non è un caso che proprio sulla partita della giustizia, oltre che sui progetti di riforma fiscale e di giustizia tributaria. si giocherà l’esito di questa legislatura, prima ancora che sulla scelta del prossimo Presidente della Repubblica.
Del resto la stessa Ue ha preteso categoricamente tra le pregiudiziali non eludibili una soluzione seria e credibile all’annoso problema dell’eccessiva durata dei processi, in modo da rendere più efficiente il processo penale, accelerandone i tempi di definizione.
Ma lo scontro sulla riforma del processo, in atto, e, prima ancora, sul ddl Zan, rinviato a settembre, prefigura una navigazione non certo senza problemi, nel contesto di una fase politica particolare, quale quella del semestre bianco che impedisce al Capo dello Stato di sciogliere le Camere, con tutta l’immaginabile conflittualità cui ci faranno assistere le forze politiche, in vista di possibili consultazioni anticipate, nell'eventualità di un esito referendario favorevole ai promotori.
Tuttavia non è certo da trascurare firti fibrillazioni nella maggioranza a seguito dell’elezione del prossimo Presidente della Repubblica.
Immaginabile, allora, che già, sin da ora, i partiti cominceranno a connotarsi con proposte fortemente identitarie, marcando il territorio con massicce azioni di propaganda politica e tutta una prevedibile accentuazione del livello di scontro nelle aule parlamentari e nelle piazze, soprattutto ad opera dei partiti populisti, giustizialisti e dell’antipolitica che già da tempo percorrono la strada dell'ambiguità istituzionale, non disdegnando di atteggiarsi, ora come forza di governo, ora come partito di lotta.
Il fatto poi che si deve fare tutto in fretta per non perdere le prime tranche di finanziamento, non aiuta a rasserenare il clima, anche perché eletto il prossimo Capo dello Stato i partiti, con gli occhi fissi sui sondaggi, non si lasceranno sfuggire la tentazione di una fine anticipata della legislatura.
Speriamo che nel passaggio parlamentare che ancora attende il ddl Cartabia al Senato non si rifaccia spazio a rimaneggiamenti, a detrimento delle garanzie, ora per l’imputato ora per le altre parti.
E tra queste preoccupazioni emerge il nodo della prescrizione in stretta correlazione all’obiettivo della ragionevole durata del processo.
Certo quel meccanismo mostruoso del “fine processo mai” della riforma Bonafede, per fortuna è stato novellato.
Con la doppia fiducia la Camera dei deputati ha varato una versione assai differente di quel testo, attualmente in vigore.
Pur lasciando inalterato il sistema nel primo grado di giudizio, modifica in modo netto la decorrenza per la definizione dei gradi successivi, ossia in appello e nel ricorso in Cassazione.
Così, per il gravame che introduce un nuovo giudizio di merito, viene introdotto un tempo massimo di due anni per la sua definizione, ampliato a tre anni per i primi tre anni dall’entrata in vigore della riforma.
Mentre il giudizio di legittimità davanti alla Corte di Cassazione deve concludersi entro un anno, ampliato di altri sei mesi, per i primi tre anni dall’entrata in vigore della riforma,esso deve trovare la sua definizione, pena l'improcedibilità del processo in questione.
Si è comunque tenuta una finestra per i reati gravi e di una certa complessità per i quali è possibile chiedere una proroga limitata al massimo ad un ulteriore anno in appello, e sei mesi in Cassazione.
Mentre restano fuori dal meccanismo della prescrizione i reati gravissimi,puniti con l’ergastolo, e per i reati di mafia,terrorismo, stupefacenti e violenza sessuale viene previsto un regime ad hoc.
Di particolare interesse anche il diritto all’oblio che riguarda la definitiva cancellazione, dai motori di ricerca, di indagati o imputati risultati poi assolti in giudizio.
Infine anche sulle indagini preliminari si è ritenuto di accorciare i tempi massimi di esercizio e si è posto un onere ai Pm di valutare, prima di richiedere il rinvio a giudizio dell'indagato, se sussistono elementi che consentono una ragionevole previsione di condanna dell’imputato.
Mentre per alleggerire il carico giudiziario viene introdotto un criterio di priorità sull'obbligatorietà dell’azione penale.
Cosicché saranno gli Uffici del pubblico ministero, nell’ambito di criteri generali indicati con legge dal Parlamento, ad individuare criteri trasparenti e predeterminati da sottoporre al Consiglio superiore della magistratura.
Infine si fa leva su un corposo investimento di digitalizzazione e su un avvio a regime del processo penale telematico.
Certo non mancano le critiche, non solo politiche, su una più articolata organicità della riforma che sembrerebbe lasciare alcuni nervi scoperti nella predominanza di una resistente visione “punitivistica” dell’ordinamento penale che ”.. riceve sempre l’entusiastico sostegno dei pubblici ministeri e delle associazioni di categoria dei magistrati, mentre le correzioni costituzionalmente orientate finiscono per essere oggetto di anatemi e catastrofismi che obbligano chi le propone a ripiegare su micro-soluzioni di dettaglio”(così l’Istituto Bruno Leoni in l’Opinione del 3 agosto scorso).
E ancora prosegue il commento: “..Le vicende della riforma Cartabia confermano che due sono le direttive lungo le quali ci si deve muovere. La prima – di lungo periodo – è un riorientamento dei modelli di cultura giudiziaria e di cultura penale “iper-punitivisti” oggi predominanti, come suggerito da Giovanni Fiandaca, anche nell’ottica di una futura affermazione di un paradigma garantista nell’opinione pubblica. La seconda – di breve periodo – è la riforma istituzionale del sistema della magistratura”.
Tuttavia anche una autorevole rappresentanza di processualpenalisti non fa sconti al testo varato alla Camera.
Sul quotidiano “Il dubbio” cinque accademici di diritto penale e procedura penale di diversa matrice culturale, Giorgio Spangher, Marcello Daniele, Paolo Ferrua, Renzo Orlandi ed Adolfo Scafati, rendono manifeste le loro perplessità sugli effetti distorti della riforma che opera una commistione di istituti processuali e penali dalle conseguenze aberranti.
Al punto che si chiedono se non sia meglio tornare alla prescrizione sostanziale, come prevista nel testo predisposto dalla precedente commissione Lattanzi,” ..perche’ l’”ibrida commistione” con l’improcedibilità immaginata dalla riforma Cartabia è “priva di qualsiasi ragionevolezza”.
Di particolare interesse si rivela, di poi, il commento dell’Unione delle Camere penali su questa riforma.
“..Il testo in esame sconta un duplice limite. Il primo è quello di essere un innesto, ancorché migliorativo, inserito in un disegno di legge delega -licenziato dall’ex Ministro Alfonso Bonafede- sin dall’origine ispirato ad obiettivi di autentica controriforma di quel processo penale accusatorio da sempre mal digerito ed osteggiato da larga parte della magistratura italiana e dalle forze politiche di schietta ispirazione populista e giustizialista.
Il secondo è che esso è il frutto di un tentativo di mediazione all’interno di una maggioranza politica emergenziale che proprio sui temi della giustizia penale manifesta i contrasti più inconciliabili perché dichiaratamente identitari.
Le ambizioni riformatrici della cultura penalistica liberale non vedono certo qui realizzata una autentica e coerente riforma del processo penale, la quale esigerebbe un quadro politico e parlamentare ben diverso da quello attuale.
Del resto le prospettive riformatrici sono state in questo caso dichiaratamente circoscritte ad interventi volti a ridurre i tempi del processo penale”.
Speriamo che si avvii una fase più garantista del rito penale e si metta in soffitta ogni rigurgito giustizialista.
Questo riscatterebbe quel certo sospetto di populismo giustizialista che non è stato estraneo neanche al dna della Lega e aprirebbe a Salvini, con il sicuro sostegno delle forze riformiste e popolari,una nuova fase politica più aderente ai valori liberali, ma capace di non perdere di vista una maggiore equità sociale e un più rafforzato solidarismo, così da riportare l’asse politico verso un moderatismo dinamico che rimetta al centro la persona e il bene comune, senza piegarsi alle seduzioni delle dottrine del gruppo di Visegrad, tra tentazioni autocratiche e disumane politiche anti immigrazione.
Luigi Rapisarda