Le risultanze che traiamo da questa importante prima tornata elettorale non possono esimerci da talune riflessioni sull’alta percentuale di astensionismo che ha interessato questo primo turno delle consultazioni amministrative. Un segnale assai preoccupante su una platea di dodici milioni di elettori. Mai si era verificato che un elettore su due non andasse a votare.
Se metà paese non vuole essere rappresentato da questi apparati di partito e non trova rappresentative la maggior parte delle candidature che, magari lasciano trasparire poca competenza, poca affidabilità e, in definitiva, non suscitano che poco entusiasmo, vuol dire che il sistema è oramai arrivato al suo limite e deve trovare subito una soluzione altrimenti ci troveremo presto con "democrature" plebiscitarie e non più con scelte partecipate e consapevoli, come, appunto, sta avvenendo sempre meno, da parte delle nostre comunità territoriali.
È sicuramente l’espressione chiara di un malessere dei cittadini dovuto a tutta una serie di concause che hanno agito, ora quale sommatoria di atteggiamenti spesso fortemente incongruenti o palesemente inadempimenti di impegni assunti al momento del rinnovo delle rappresentanze, ora dovuti ad uno scadimento generale dell'azione politica di questo tormentato decennio, al punto da acuire fortemente il distacco tra paese reale e paese legale.
E, tanto più l’analisi sarà per i partiti senza paludamenti e fuori da ogni ipocrisia, tanto più si potrà cogliere, in buona parte di questo fenomeno, l’essenza di tanto malessere. Ma pesa anche il grande deficit di una classe dirigente che nessuno più si preoccupa di formare. In questo quadro, assai allarmante, non possiamo non cogliere subito un dato di fatto.
Nessuno dei partiti e delle coalizioni può dichiararsi vincitore, anche se non vanno ignorate le vittorie,al primo turno, di Sala a Milano, Lepore a Bologna e Manfredi a Napoli.
Tre grandi città ove si è premiato il buon governo e la forte credibilità di candidature non improvvisate. Ma anche qui ha pesato un forte astensionismo. Mentre la constatazione generale è che si è votato in un clima di forte stanchezza e grande disillusione dell’elettorato.
E l’idea di presentarsi spesso con candidati cooptati dal territorio, ma sconosciuti ai più, per bypassare le conflittualità che si erano innescate nelle coalizioni sulle designazioni di propri esponenti, ora non gradite all’uno, ora non gradite all’altro, non ha giovato, anzi ha accentuato l’insofferenza di molti elettori.
Con il paradosso che a forza di non dover essere espressione visibile dell’uno o dell'altro partito dello schieramento, questi Cirenei hanno finito per non rappresentare nessuno: il caso di Michetti a Roma è stato emblematico.
Ma al fondo della questione non è insignificante il forte deficit di nuova classe dirigente, non più negli obiettivi primari dei partiti, sempre più ancorati e sudditi del loro leader.
Ora in questa particolare fase politica del nostro paese, frastornato da una crisi che ancora sta fortemente condizionando la ripartenza, a poco sono servite le rivendicazioni identitarie di ciascun partito e le loro precipue connotazioni programmatiche, se da queste il cittadino non è riuscito a cavare alcuna reale e credibile percezione di un cambiamento in meglio della propria esistenza.
Certo si è votato per i governi locali, ma il riverbero di una convincente o meno organizzazione dei servizi delle municipalità ha fatto la differenza nel motivare l’elettore ad andare al voto. E questo nella metà di essi non è assolutamente avvenuto.
Ciò che non si è riuscito a cogliere nella sua cruda pienezza è il fatto che la disillusione ed il disincanto in cui molti cittadini sono stati condotti, dal voltafaccia frequente delle forze politiche che hanno assunto in questi anni responsabilità di governo, ha definitivamente allontanato dalle urne ogni speranza di effettivo cambiamento, sia in termini del proprio tenore di vita quotidiana - e qui ognuno ha guardato allo stato dei servizi delle proprie municipalità - sia su un piano di generale miglioramento del sistema.
Aggiungendo a ciò il fatto che non esiste da tempo una valida politica della casa. La conclusione non può che essere amara.
Queste forze politiche non hanno saputo offrire, nella gran parte dei casi, quelle risposte essenziali e prioritarie che in questo momento molti cittadini si attendevano, ossia, creazioni di posti di lavoro, fiscalità, sicurezza delle strade, un virtuoso sistema di raccolta e smaltimento dei rifiuti, miglioramento netto dei trasporti, più asili nido, manutenzione attenta degli edifici scolastici, progettualità lungimirante sulla vocazione specifica di ciascun territorio e tanto altro.
Insomma è mancato sovente un quadro chiaro di organica sostenibilità di quegli impegni, tanto più credibili se affidati a candidati dalla sperimentata competenza e affidabilità, piuttosto che dedicarsi ardentemente a quotidiane arringhe nelle piazze da parte di taluni leader nazionali, su tematiche non pertinenti, come le battaglie no wax e le generiche prese di posizione no tax.
Tutto questo si è acuito clamorosamente nel confronto che ha visto partiti e liste alla conquista del Campidoglio, mentre è divenuta quasi irrilevante la circostanza che Roma è il cuore della cristianità.
Qui, ancor meno, sono venuti alla ribalta tutti quei temi che affliggono Roma e men che meno le tematiche della qualità della vita (basta comparare il forte divario centro-periferie) e della famiglia. Un messaggio che è passato poco nei mass media e nella conduzione quotidiana della propaganda elettorale.
E quelle proposte, soprattutto del Popolo della Famiglia, che si sono orientate su queste tematiche, in special modo sul maggior sostegno per rilanciare la centralità della famiglia e imprimere un'inversione di tendenza della natalità, non sono sembrate, evidentemente, convincenti. Eppure parliamo di valori primari fondativi di ogni comunità sociale.
Il fatto è che molti dei partiti hanno finito per parlare al vento mentre tanti cittadini si dibattono tra occupazioni precarie ed inattività per lunghi periodi di disoccupazione e magari con uno sfratto sotto porta.
Insomma come a dare l’impressione che una società tanto più si reputa evoluta quanto più relega su piani meno avanzati la tutela di questi beni precipui. Un po' quello che è successo in questi decenni, a proposito dell’uno e dell’altro di questi beni primari, con normative che ne hanno ridimensionato la tutela.
Ma è stato soprattutto l’istituto della famiglia a pagare per le politiche disastrose che hanno disincentivato la formazione di nuovi nuclei familiari stabili, creando un contesto di precarietà generale che ha fortemente inciso su tali essenziali scelte. Con il risultato di essere ultimi nella natalità tra tutti i paesi del mondo.
Su questi nodi, mi pare, vada incentrata buona parte della riflessione generale perché si ritrovi la speranza di un futuro che recuperi queste prioritarie sensibilità: progettare una famiglia e immaginare un futuro e una qualità di vita migliore. Aspetti della dimensione umana che, ad oggi, restano soverchiati dalla “paura del futuro”. Una paura che porta inevitabilmente a chiudersi in se stessi, sbarrando ogni e qualsiasi barlume di fiducia alle proposte di una classe politica che si è dequalificata oltre ogni misura, facendo perdere credibilità alla funzione dei partiti. Così non ha tutti i torti Giorgia Meloni, nel sottolineare che siamo di fronte ad una "crisi della democrazia". Non so se nel suo intimo lo avverta con rammarico o le serva per guardare altri versanti!
È in realtà un interrogativo che valenti politologi si pongono da tempo, e non solo con riferimento alle nostre vicende interne (il riferimento è anche alle inquietanti vicende dell’era Trump e a suo nefasto epilogo con attacco diretto al Campidoglio, l’istituzione più rappresentativa di quel paese).
Ma nessuno di queste forze politiche sta operando concretamente per un miglioramento del sistema. E ciò per la semplice ragione che non si scorge nelle concrete prassi politiche di questi partiti, volte ad accentuare divisioni piuttosto che convergenze, un cristallino e saldo perseguimento del bene comune. Certo se vogliamo evitare perniciose evoluzioni autocratiche secondo i modelli che, nelle diverse sfumature, da Orban a Putin, costellano il panorama geopolitico, è compito precipuo delle forze politiche trovare subito i doverosi rimedi.
Una diversa prospettiva non può essere considerata assolutamente possibile per chi è autenticamente democratico e crede nei valori della persona e nei diritti di libertà, dell'uguaglianza, della solidarietà e nel bene comune, perché, appunto, la democrazia è l’unico modello più in coerenza con i principi universali della persona. A tal proposito pesa non poco la scarsa attenzione alle diverse realtà territoriali da parte di questi partiti, una volta archiviate le tornate elettorali.
Serve recuperare quel senso di comunità e di partecipazione che la politica deve saper suscitare, invertendo il diffuso disincanto ed il disinteresse che ha portato metà del paese, nel giro di un decennio, alla soglia di un elettore su due che non va a votare. Un vulnus che una democrazia non può permettersi. Un esempio emblematico è dato dall'attuale realtà di governo.
È cosa nota a tutti i commentatori politici che in questo momento vi è un governo che nella sua ineludibile collegialità trova la sua più valida e concreta espressione nella personale ed autorevole sintesi da parte di Draghi, per fortuna uomo che ha il senso delle istituzioni, quindi non suscettibile di derive insidiose.
Egli di fatto si trova a decidere da solo, nel guazzabuglio di una coalizione rissosa che vuole tutto e il contrario di tutto. E il quadro che ne emerge è emblematico nella sua cruda realtà. Tanto appare insignificante l'incidenza dei partiti della coalizione che sorreggono l'esecutivo nelle scelte e nell’assunzione di una reale responsabilità politica dell'azione governativa.
Basti por mente alle istrioniche stranezze della Lega, che contemporaneamente siede nel governo e opera e arringa le piazze come partito di opposizione. Mentre il recupero della fiducia nei quadranti, non solo europei, appare ascrivibile alla grande credibilità che Draghi può vantare per la riconosciuta altissima competenza in campo economico.
Ma anche questa virtuosa missione di Draghi non sembra dover durare molto. Già i partiti, soprattutto il centrodestra,valutano come dirottarlo alla presidenza della Repubblica per riprendersi il campo a piene mani. Assai eloquente, a tale proposito, ci pare il monito di Berlusconi: "..un governo in mano a Meloni o Salvini? Non scherziamo!".
In mezzo a tanto smarrimento, non può non cogliersi il senso di una scelta intelligente ed accorta che si è registrata a Roma.
La grande performance di Calenda che è riuscito a totalizzare un buon venti per cento di voti, peraltro mettendoci solo la propria faccia e con un programma credibile ed una presenza nel territorio attenta e puntuale.
Al di là della eccessiva personalizzazione, perché al di fuori delle garanzie di collegialità che un partito normalmente assicura, va riconosciuta a Calenda la capacità di aver saputo cogliere il deficit di un'area, il centro, da tempo scarsamente rappresentato, eppure ago della bilancia, da sempre e antidoto alle estremizzazioni delle coalizioni.
A questo punto serve un grande sforzo di sintesi tra i partiti e le formazioni dell'area centrista. Forse è arrivato il momento di uscire davvero dalle logiche di mera testimonianza identitaria.
È un'area che va da Berlusconi a Calenda e Renzi, cui anche una parte del Pd non sarebbe insensibile. In queste formazioni campeggiano valori e ideali che vanno dal popolarismo al cattolicesimo democratico e sociale, al riformismo liberale, oggi, appunto, assai poco rappresentati dai partiti che caratterizzano le coalizioni di centrodestra e di centrosinistra per l’eccessiva polarizzazione delle loro visioni programmatiche.
Tanto nel centrodestra (ormai non più sotto la guida di Berlusconi), ove c'è il predominio di una forte impronta populista, sovranista ed in buona parte antieuropeista,che estremizza le proposte, che oltre ad essere assai divisive,difficilmente offrono il campo a mediazioni.
Quanto nel centrosinistra, da cui non è indenne neanche il Pd, ondivago, che continua a navigare su una linea politica assai altalenante, ammaliato dall’idea di un’alleanza strutturale con il movimento 5 Stelle: una formazione politica che ha fatto dell’antisistema, del giustizialismo, dell’opportunismo politico (con tre governi, assai differenti nelle alleanze, talvolta palesemente antitetiche,l’uno dall’altro) e della demagogia antiparlamentare (nell’idea di depotenziare il sistema (a loro si deve la recente decisione del taglio di un terzo dei parlamentari delle due Camere, con l’effetto di distorcere gravemente il sistema delle rappresentanze dei nostri territori) e l’idea fissa della democrazia diretta, secondo la tipologia della piattaforma Rousseau, di cui ne abbiamo visto incongruenze e ampie atipicità per il forte squilibrio nel rapporto tra votanti e rappresentanze da designare.
Ora, se come si sostiene, senza il centro non si vince, ci sembra, a questo punto, naturale che si avvii un processo di agglomerazione per costruire una federazione che metta insieme questi valori portanti e che non lasci questi vuoti di rappresentanza ad iniziative personalizzate, come si è registrato nella nostra Capitale.
Solo così può darsi una efficace risposta a quella parte dell’elettorato moderato che per non farsi ingannare dalla ennesima ambiguità delle forze politiche o dalla prevalente polarizzazione di alleanze sempre più estremizzate, ha lanciato un chiaro segnale preferendo posizioni centriste e non ambigue, con Calenda.
Si colga l’occasione per elaborare un programma sugli assi essenziali dello sviluppo sostenibile,come delineati dagli interventi che si stanno mettendo in campo con il Pnrr, e che, essendo appena agli inizi dei sei anni di tempo che abbiamo per completare tutte le opere, si riveleranno più o meno congrui a seconda della visione progettuale e della lungimiranza della coalizione che si intesterà tale missione,
Ad essa si affianchino politiche di concreta valorizzazione delle specificità dei territori, per unire e non per dividere, in modo che lo sviluppo si dispieghi in un cammino armonico che colmi i divari enormi tra nord e sud e dia benessere comune e fiducia nel futuro, secondo quell’ideale di nuovo Umanesimo solidale che, in una visione universale e di stretta interdipendenza dei popoli, deve trovare, nelle scelte e nelle prassi politiche, ogni paese del nostro pianeta.
Altrimenti non solo saranno sempre meno coloro che penseranno di formarsi una famiglia, nel prolungato perdurare della controspinta che, oggettivamente, la pandemia ha indotto, nella nuova dimensione del quotidiano, distanziandoci sempre più da una vita sociale, che per oggettive necessità di tutela generale, ti sottrae spazio, acuendo depressione e smarrimento, ma si accentueranno le sacche di quella tristezza cosmica che, a sua volta, deprimerà ogni idea di futuro.
E così, addio progresso e bene comune, mentre sempre più minacciosi potrebbero profilarsi i prodromi di un nuovo Medioevo.
Luigi Rapisarda