Anche questa sagra elettorale si è conclusa nell’indifferenza e nell’astensione, soprattutto in merito i cinque requisiti referendari. Il nulla sovrasta la nostra politica. Ma è politica? Aristotele si solleverebbe dalla tomba e De Tocqueville e Gobineau si morderebbero le mani. Ma chi è Aristotele? Qualche vago ricordo scolastico. E De Tocqueville e Gobineau? Solo in un qualche quiz “culturale” qualcuno balbetterebbe una risposta sbagliata.
Questo è il fatto che sovrasta il tutto: l’ignoranza, l’incultura, l’abisso che separa il popolo (dizione generica, insufficiente, onnicomprensiva ma abbastanza indicativa) e il potere.
Apparentemente si vota, e il popolo esprime il suo parere. Lo esprime sui suoi governanti, al centro o in periferia, lo esprime su temi più o meno cervellotici, che non capisce o che non gli spiegano. La metà circa degli aventi diritto si astiene dal partecipare al rito. Anche in Francia, anche negli Stati Uniti. La democrazia è asfittica. Si sfoga con l’astensione. La gente è “fuori”, preoccupata per il carovita crescente, per l’amento della tassazione, per la mancanza di futuro per i figli, per la guerra in Ucraina che non finisce mai, per l’insicurezza generale che ne deriva. Un’Italia allo sbando.
Poi, i risultati sono sempre quelli: un’élite saldamente aggrappata al potere, ignorante, cialtrona, spesso malavitosa, che si appella alla Costituzione, debitamente ignorata quando conviene, che fa finta d’essere attenta ai bisogni dell’elettorato ma, in realtà, se ne frega e coltiva solo i propri interessi.
Votiamo, voteremo gente infilata nelle liste elettorali scelta da Segretari di partiti (eletti da nessuno e costituzionalmente illegittimi) che in tal modo si assicurano i propri fedeli. C’è una scelta vera degli elettori? No.
I cinque referendum sulla giustizia sono stati un ennesimo conato, inutile, per portare un briciolo di dignità alla giustizia italiana, che ne ha proprio poca. Inutile, perché, nel frattempo, si discute in Parlamento una legge di riforma che non sarà mai approvata, come tanta altre, per l’opposizione incrociata di tutti e, soprattutto, degli interessati, i magistrati.
L’opinione del cittadino medio sulla giustizia e sui suoi comprimari è pessima, per non dire feroce nei confronti della magistratura. Una casta inamovibile, irresponsabile, inquinata dalla politica e dagli interessi economici. È una vergogna per un Paese civile.
Cosa vuole la gente? Vuole che la giustizia sia giusta, non a servizio dei potenti o della politica. Vuole che sia equa, non a discrezione dei magistrati, Vuole che sia sollecita, non secolare. Vuole che sia discreta, non sputtanatrice di un presunto colpevole. Vuole che sia alla portata di tutti, non solo di chi possa permettersi di pagare le spese di un giudizio. Vuole che i giudici siano persone intemerate e responsabili dei loro errori. Vuole troppo?
Utopie? Forse, ma è così difficile cambiare le cose?
Ci vantiamo di essere la patria del diritto, e dei diritti ne facciamo strame. Altri Paesi non lontani da noi hanno dei sistemi giudiziari che funzionano: la Germania, l’Inghilterra, la Svizzera. Perché da loro funziona e da noi no? È questioni di uomini o di leggi?
Basterebbe copiare i sistemi che funzionano bene. Un po’ di umiltà ci farebbe bene. Meno toghe ed ermellini, più sobrietà e concretezza. Sono decenni che si discute sulla separazione delle carriere, sui criteri di avanzamento dei giudici, sull’utilità del Consiglio Superiore della Magistratura, senza concludere nulla. A ogni proposta di riforma l’Associazione nazionale dei magistrati si oppone e magari, programma uno sciopero di protesta. Certo, difendono i loro interessi, ma chi difende quelli dei cittadini? Nessuno.
La scelta referendaria è stata, a suo modo, un’altra protesta. Non poteva che essere un fallimento. Per il cittadino comune la giustizia è remota e pericolosa. Non è uno strumento per avere ragione in un caso controverso. È un’insidia dove può accadere di tutto.
L’esaltazione di alcune figure luminose della Magistratura diventa stucchevole se è solo una parata di personaggi che dietro le quinte si scambiano battute, recitano la parte di uomini di Stato e poi tornano tranquillamente alle loro faccende quotidiane.
L’Italia ha bisogno di riforme. Lo dicono tutti ma non se ne fa nessuna: la burocrazia è inefficiente, la giustizia è un rebus, la sanità un disastro, il famoso PNNR è a pezzi. Con la crisi ucraina i prezzi delle materie prime sono triplicati. È stata una fiammata di speranza.
Non parliamo dell’economia. La guerra in Ucraina la stiamo facendo anche noi con i prezzi elevati (e ingiustificati dell’energia), con le restrizioni alimentari che porteranno in Europa ondate di profughi disperati e affamati, con l’aumento dei tassi e dello spread, con il peso enorme del nostro debito pubblico, con l’incertezza che, sovrana, aleggia sulle decisioni europee.
Il mondo sta cambiando velocemente e tutti gli equilibri sono saltati. L’unanimità degli Stati membri dell’Unione non regge più. Non regge più neppure questa democrazia ammalata di distinguo. Difendiamo i valori della civiltà occidentale contro l’espansionismo russo. Quali? Il crollo del sistema economico, la disoccupazione crescente, una globalizzazione fallita, la disaffezione al lavoro, il peso fiscale, il catasto del 1939, gli appalti mafiosi, la prepotenza delle multinazionali, le mascherine agli esami di Stato?
Occorre una mano ferma. Dov’è? Occorre una visione comune. Quale? Bisogna negoziare la fine della guerra. Come? Domande senza risposta. L’euforia dell’estate allontana le prospettive dell’autunno. Rischiano di essere tragiche.
Stelio Venceslai