Moltissimo si è scritto su Aldo Moro e si continuerà. Tantissime narrazioni si sono rifugiate in un colpevole conformismo che non illumina ma segue percorsi stantii. I tanti interrogativi di allora e di oggi, sono annegati in un mare di parole che non hanno dato risposte.

Si è detto che con Moro le Brigate Rosse hanno inteso colpire il cuore dello Stato. Rimane uno slogan se non si aggiunge che si è voluto fermare il cammino dell’Italia democratica, una visione del futuro del Paese, un progetto di rafforzamento della democrazia attraverso il coinvolgimento della sinistra comunista berlingueriana, insofferente verso la dipendenza economica e ideologica dalla Unione Sovietica.

La visione di Moro era di movimento,  ritenendo non più attuale la teoria delle dighe per difendere la libertà e la democrazia, ma si doveva andare in campo aperto con coraggio per coinvolgere e allargare gli spazi del consenso.

Infatti, alla fine degli anni ‘60 nel Congresso democristiano, esce dal correntone Doroteo e forma la sua corrente.

Siamo nel periodo del ‘68 parigino (fenomeno di contestazione giovanile mondiale) e Moro ritiene che i fermenti nuovi di una società in crescita non possano essere trascurati, ma vanno letti e interpretati per accompagnare l’evoluzione umana con i principi democratici e i Valori cristiani.

Era la stagione per nuove sfide difronte le tante attesa in una società in trasformazione.

Un disegno ardito quello di Moro che si faceva carico delle conseguenze e inquietudini diffuse e che isolava gli estremismi di destra e di sinistra che avevano iniziato a spargere sangue innocente.

Quel disegno fu raccolto da Berlinguer per la via nazionale al comunismo, per il giudizio positivo sulla NATO.

Era la scelta con cui il segretario del PCI si contrapponeva ai suoi ex compagni che vagheggiavano la rivoluzione armata.

Dopo i Governi centristi di Andreotti, Moro nel Congresso del ‘73 riprende la tessitura dei Governi di centro sinistra con Fanfani segretario del Partito e Mariano Rumor Presidente del Consiglio.

Moro fu l’insieme di una volontà ferrea, di una fede profonda verso la democrazia.

Un paziente tessitore di rapporti umani, rispettoso nei confronti delle idee altrui, convinto che nel confronto, lontano da faziosità, avrebbe prevalso l’Uomo.

Non l’ho mai sentito dare un giudizio negativo nei confronti di nessuno anche difronte a polemiche pretestuose.

Aveva convincimenti forti accompagnati da una grande speranza nei ravvedimenti di errori e di analisi parziali. Ricordo i Suoi giudizi positivi su Donat-Cattin.

Sembravano diversi ma solo nei tratti esteriori,  ma il “mite” Moro e il “sanguigno” Donat -Cattin erano simili.

Moro martire per la libertà, la giustizia sociale, sacrificato barbaramente.

Ricorre il centenario della morte di Matteotti. Una storia di martiri ricordata nelle ricorrenze.

Quella storia è spazzata via dal disegno eversivo del premierato che liquida il Parlamento con tutte le garanzie democratiche e dalla legge sulle regioni che rompe l’unità del Paese e quindi i valori della solidarietà.

Nessuno parla di disegno eversivo. A un disegno eversivo Moro e tanti si contrapposero e pagarono con la vita. Il silenzio è il sintomo di un Paese che sta perdendo l’anima.

Alla fine voglio raccontare un episodio.

Eravamo nella sede del gruppo moroteo a Via Po presente Moro. Salvi e Belci comunicavano che il gruppo aveva raggiunto quasi il 4 per cento delle tessere. Moro si meravigliò molto e chiese come mai si fosse acquisito un risultato così importante.

Moro guidava una piccola formazione mentre altre avevano percentuali a doppie cifre. E’ un esempio che i pensieri forti non subiscono condizionamenti.

E Moro fu grande per il progetto di vita.

Mario Tassone