Antonio Bisaglia nacque a Rovigo il 31 marzo 1929. Morì il 24 giugno 1984 nel mre di Portofino-Genova. Ultimo di sette figli, nacque a Rovigo il 31 marzo 1929. Il padre era ferroviere e la madre casalinga. Studiò a Rovigo, dapprima in seminario e poi al liceo classico, e maturò la sua formazione in seno all'Azione cattolica.

Nel 1945 aderì alla Democrazia cristiana. Da allora il suo curriculum politico, tutto interno all'organizzazione di partito, è quello di molti esponenti della seconda e terza generazione democristiana. Fu prima dirigente giovanile locale, poi dirigente regionale e, dal 1960 al '63, segretario provinciale a Rovigo.

Con il congresso di Firenze del '59 divenne consigliere nazionale. Tre anni prima aveva iniziato l'apprendistato di amministratore locale entrando nel Consiglio provinciale di Rovigo. Contemporaneamente i canali partitici gli avevano schiuso le porte sia del parastato (nel 1958 fu chiamato a far parte del consiglio d'amministrazione della Snam, società del gruppo Iri), sia delle associazioni di categoria fiancheggiatrici della Dc (assunse la presidenza della Cassa mutua provinciale dell'Associazione polesana dei Coltivatori diretti).

Nel 1963 conseguì la laurea in giurisprudenza, mentre due anni prima era diventato agente per Rovigo delle "Assicurazioni generali di Venezia". Nel 1973 lasciò il capoluogo polesano e divenne agente per la stessa compagnia a Padova.

Alle elezioni politiche del 1963 venne eletto per la prima volta deputato nella circoscrizione di Padova, Verona, Vicenza e Rovigo. All'interno della Democrazia cristiana aderì prima ad "Iniziativa democratica" e poi, fin dalla sua costituzione, alla corrente dei "dorotei". Legatissimo a Mariano Rumor, durante il periodo della sua segreteria politica (1964-'68) fu a capo dell'ufficio nazionale organizzativo e successivamente di quello per gli enti locali.

Fu rieletto deputato nello  stesso collegio elettorale nel 1968 e poi alle successive consultazioni del '72 e '76. In quelle del '79 passò al Senato nel collegio di Bassano del Grappa (Vicenza) che lo rielesse nel 1983. Con l'assunzione della Presidenza del consiglio da parte di Rumor iniziò il suo iter governativo: sottosegretario alla Presidenza del consiglio nei primi tre governi Rumor e al tesoro nel gabinetto Colombo e nei primi due presieduti da Andreotti.

Il 9 agosto 1972 lasciò il governo per diventare vicesegretario della Dc, in coabitazione dapprima con De Mita e in seguito con Marcora. Nel quinto governo Rumor, marzo 1974, fu nominato ministro dell'agricoltura, per poi passare, nel quarto e quinto governo Moro e nel terzo, quarto e quinto governo Andreotti, cioè fino al marzo 1979, titolare del ministero delle Partecipazioni statali. In questi anni, dopo l'uscita dalla scena governativa di Rumor, conseguente al suo coinvolgimento nel caso Lockheed, Bisaglia fu con Flaminio Piccoli il leader della corrente dei dorotei, posta in difficoltà dalla segreteria di Benigno Zaccagnini e dalla leadership che sul partito esercitava Moro, ma sempre potente e influente.

Nei due successivi governi Cossiga, Bisaglia fu ministro dell'Industria, posizione dalla quale fu costretto a dimettersi in seguito ad accuse di vario genere che gli vennero rivolte dentro e fuori del Parlamento (profitti personali, coinvolgimento nello scandalo dei petroli, rapporti con il giornalista Mino Pecorelli). Nel 1983, dopo le elezioni politiche, fu eletto Presidente del Gruppo democristiano del Senato.

Nel pomeriggio del 24 giugno 1984, mentre era a bordo del panfilo di proprietà della moglie Romilda Bollati di Saint Pierre, che aveva sposata con solo rito religioso nel dicembre del 1982 a Venezia, cadde inspiegabilmente in mare al largo di Portofino e morì. Le circostanze della morte lasciarono aperti numerosi interrogativi sui quali si arrovellò molto il fratello sacerdote di Bisaglia, Mario, che fu pure trovato morto in un laghetto del Cadore (Belluno) il 17 agosto 1992. Una rapida inchiesta archiviò questo secondo decesso come suicidio. 

Bisaglia fu indubbiamente una figura di rilievo negli anni Settanta e Ottanta, un esponente di spicco della seconda generazione democristiana. Politicamente la sua azione fu improntata a una grande moderazione. Scettico circa la politica di solidarietà nazionale, per la natura alternativa del Pci e della Dc (ciò che non gli impedì però di essere presente in tutti i governi ispirati a quella formula), fu sempre favorevole all'alleanza fra Dc e Psi, forze che giudicava politicamente più omogenee, sia negli anni del centro sinistra sia quando si impose la formula pentapartitica, cioè con il consolidamento della segreteria Craxi all'interno del Partito socialista.

La sua cultura politica fu tutta partitica, così come le sue fortune seguirono una trafila sempre mediata dal canale di partito. Come buona parte del personale politico italiano che gli fu coevo, egli ebbe una percezione dello Stato e dei suoi problemi filtrata dall'ottica di partito e condizionata dall'idea implicita della precedenza del partito sullo Stato.

Per questo la sua carriera, che da oscuro attivista in una provincia marginale lo portò in pochi anni ai vertici governativi nazionali, divenne esemplificativa di un metodo che, dall'inizio degli anni Settanta, con la reazione alla partitocrazia, fu sottoposto a critiche sempre più forti: "carriera democristiana" fu definita infatti quella di Bisaglia in una minuziosa inchiesta giornalistica che nel 1975 ne ripercorse dall'inizio tutte le tappe.

Il potere che gliene derivò (causa e insieme effetto della rapidissima ascesa) era fondato su una serie di elementi concatenati: controllo delle strutture dirigenziali del partito, solide ramificazioni nelle organizzazioni collaterali delle categorie economiche, appoggio elettorale sicuro da parte del reticolo diocesano e parrocchiale, vasta disponibilità di denaro. A questi elementi si aggiunse poi tutta  una trama di rapporti con il mondo produttivo, imprenditoriale e finanziario nazionali, resa possibile dalla gestione della massima leva governativa durante i primi gabinetti Rumor, e poi di dicasteri come l'industria e le partecipazioni statali, nonchè dal condizionamento che il sistema correntizio esercitava sul partito e sulle scelte governative.

Oltre al partito, infatti, la "corrente" fu il secondo grande referente della sua attività. Gli anni dell'ascesa di Bisaglia sono quelli del definitivo consolidamento nella Dc del sistema correntizio, basato su una struttura organizzativa parallela e concorrenziale rispetto a quella del partito, che appariva ferrea nei suoi meccanismi ma oscura, incontrollabile, sottratta ad ogni vigilanza. Egli fu perciò, contemporaneamente, uomo di partito e uomo di corrente: infatti la sua influenza era soprattutto legata al controllo che, attraverso la corrente, era in grado di esercitare sia sul partito, sia sulla formula e la composizione dei governi, sia su molte strutture pubbliche, in particolare del parastato, del credito bancario, della pubblica amministrazione.

L'ascesa di Bisaglia, avvenuta appunto nella fase in cui partito e correnti stavano scadendo in partitocrazia e correntocrazia, rappresentò un fenomeno per molte ragioni tipico dell'Italia di quegli anni. Se per un verso infatti apparve, e forse fu, un boss, espressione di un modello di leadership che forzava molti aspetti della tradizione politica italiana, soprattutto cattolica, va anche detto che egli non perdette mai il contatto con quella realtà popolare della quale fu un prodotto negli anni in cui la società italiana, passando dalla civiltà contadina a quella industriale, dalla povertà all'opulenza, modificava la gerarchia e la priorità dei valori.

Di qui le ambiguità della sua figura e del suo ruolo nelle vicende del tempo, la difficoltà che si incontra a distinguere il giudizio sulla persona da quello sul personaggio pubblico. Uomo ruvido al pari della terra nella quale era nato, sbrigativo, indubbiamente dotato di intuito e di capacità di comando, abituato a concepire fin da ragazzo la competizione politica come lotta dura e spietata, quando morì veniva considerato come un leader ancora in crescita, sebbene il suo nome fosse stato ripetutamente associato agli scandali di quegli anni e apparisse quasi emblematico dell'intreccio oscuro fra politica e affari che determinarono in definitiva il collasso dell'ordinamento politico postbellico.

Bibliografia: Atti e documenti della Democrazia cristiana, Cinque lune, Roma, 1969;  A. CITTANTE, Memorie di un sindacalista rurale, Ipag, Rovigo, 1973; E. SCALFARI e M. TURANI, Razza padrona, Feltrinelli, Milano 1974; G. PANSA, Bisaglia una carriera democristiana, Sugarco, Milano, 1975; G. ANDREOTTI, Diari 1976-1979, Rizzoli, Milano, 1981;  AA.VV., Toni Bisaglia nel Partito, nel Governo e in Parlamento, Ipag, Rovigo, 1986; F. MALGERI (cur.), Storia della Democrazia cristiana, Cinque lune, Roma, 1989; G. ANDREOTTI, Governare con la crisi, Rizzoli, Milano, 1991; C. BRAMBILLA-D. VIMERCATI, Gli annegati. Il giallo dei Bisaglia e altri misteri, Baldini e Castoldi, Roma, 1992; G. GALLI, Mezzo secolo di DC, Rizzoli, Milano, 1993; M. FRANCO, Tutti a casa, Mondadori, Milano, 1993.

 

Gianpaolo  Romanato

 

 

Antonio Bisaglia, il mistero doroteo lungo quarant'anni - La Nuova Venezia

 

 

Toni Bisaglia fu una figura politica incompiuta. Morì quando era ancora giovane e aveva appena imboccato il percorso di una sorta di rinnovamento di se stesso, nel bel mezzo di un tentativo più corale di ridisegnare la Dc e attrezzarla in vista di quei tempi nuovi che si annunciavano imminenti, promettenti e insidiosi. Inoltre egli era piuttosto restio a raccontarsi, tantomeno a celebrarsi. Contava sul fatto che a parlare in suo conto sarebbero state le sue opere, e tanto più il tempo (pur poco, e affrettato) che sentiva di avere ancora davanti a sé. Tempo che quella caduta da una barca nel mare di Portofino gli portò via tutto a un tratto.

Quella sua morte così accidentale finì per essere a quel punto il tratto più conosciuto di lui, alimentando un mistero che non aveva ragioni e oscurando una biografia che non era ancora compiuta. Alle sue spalle, però, c’era già una storia politica di rilievo, come esponente e poi come leader di quel “Veneto bianco” che rimase a lungo il bacino di consenso più ampio del nostro insediamento popolare. E davanti a lui, in un futuro che non ebbe modo di vedere, c’erano quei legami solidi e promettenti che aveva annodato con De Mita, segretario del partito; con Cossiga, allora presidente del Senato e di lì a poco capo dello Stato; e in modi forse un tantino meno intimi e meno complici, con Forlani. La terza generazione, come la si etichettò. Egli si trovava insomma ben dentro la vita democristiana di quegli anni, ignaro che quella vita sarebbe stata assai più breve, e soprattutto assai più tormentata, di come all’epoca si immaginava.

Avesse avuto più tempo davanti a sé avrebbe tagliato i traguardi più apicali cui sembrava destinato. Ma in realtà lui stesso  aveva una sorta di presentimento di quel che sarebbe potuto accadere. Non alla sua persona, affatto. Ma semmai al suo mondo, al suo partito, alla sua terra politica. Come avesse intuito per tempo lo sfacelo che sarebbe capitato dieci anni dopo. In una parola, aveva ben chiara la fragilità del potere. Del suo, prima di tutto.

Per molti anni Bisaglia fu a lungo un outsider. Era figlio di un ferroviere. La sua famiglia era povera e marginale. E la sua città era a suo modo marginale anch’essa. Aveva mosso i suoi primi passi politici nella provincia di Rovigo, allora la meno democristiana del Veneto. Per giunta era stato guardato con sospetto dai notabili che governavano il partito in quegli anni. Troppo giovane, troppo dinamico, troppo ambizioso, forse troppo disinvolto. Privo di quelle ambiguità e di quelle ipocrisie un po’ untuose che allora andavano per la maggiore, specie da quelle parti.  

Come tutti in quegli anni, cominciò con le associazioni cattoliche e con il Movimento giovanile del partito. Ricordava sempre che alla morte di De Gasperi s’era precipitato con altri ragazzi a Sella di Valsugana e aveva assistito all’arrivo di Andreotti, allora giovane sottosegretario. Accolto dalla moglie dello statista trentino con un’espressione che lo aveva colpito: “Eppure, le voleva bene”. Dove quell’”eppure” poteva essere letto in molti modi (e Bisaglia indulgeva da parte sua al modo più malizioso, o almeno più severo).

Arrivare in Parlamento, muovendo da quella provincia più povera (anche di voti) e quasi periferica, non fu affatto impresa facile. A rendergliela un pochino meno proibitiva fu il legame intessuto con Mariano Rumor, gran capo dei dorotei e quasi sul punto di diventare segretario del partito e poi presidente del consiglio. Quel legame lo accompagnò e lo aiutò per molti anni. E quando poi si ruppe e le loro sorti si divisero, non senza qualche asprezza, Bisaglia ne ricavò una sorta di imbarazzo. Poiché lui si sentiva più moderno, più dinamico, più adatto ai tempi nuovi rispetto al suo capo storico. Avvertendo però il peso di una frattura che non si rimarginò mai del tutto.

Arrivato a Roma, si dedicò all’organizzazione del partito. Il tema era quasi un suo pallino, in quei primi anni importanti. Era convinto che i modelli politici adottati fin lì avessero fatto il loro tempo. Sia quelli del notabilitato degasperiano. Sia anche quelli, apparentemente più moderni, introdotti poi dal dinamismo di Fanfani e dei “giovani” di Iniziativa democratica, la nuova corrente di maggioranza. La sua idea era che la Dc dovesse a quel punto cercare nuove sintesi tra i “valori” e gli “interessi”. E cioè le due polarità -non più opposte l’una all’altra- intorno a cui si snodava il rapporto con l’elettorato. Quelle due polarità incarnavano nella sua visione il legame tra passato e futuro.

Fu sottosegretario a Palazzo Chigi, nei governi Rumor. Poi vicesegretario della Dc, con Fanfani, per un breve periodo. Poi ancora ministro dell’Agricoltura, delle Partecipazioni Statali, dell’Industria. Infine capogruppo in Senato. Ma lungo tutto quel suo percorso, scandito da molti alti e qualche basso, egli fu soprattutto il leader politico della sua regione. Convinto che quel territorio avesse ragione di reclamare la maggiore autonomia. Ma almeno altrettanto consapevole che il suo compito fosse quello di coltivare quell’autonomia all’interno di una cornice unitaria dello Stato.

Era un modernizzatore, Bisaglia. Si batté per costruire quell’autostrada veneto-trentina (la famosa Pi-Ru-Bi) all’epoca tanto contestata dalla sinistra. Favorì l’ammodernamento dell’economia pubblica. Dialogò con gli imprenditori privati sulle grandi innovazioni di casa nostra che stentavano a tenere il passo dell’economia globale. E nel più piccolo recinto della vita di partito si sforzò di immaginare una Dc meno legata alla conta delle tessere e più capace di dialogare con i nuovi ceti che l’evoluzione del sistema paese proiettava sempre più sulla scena pubblica. Nulla di ideologico, per carità. Ma un insieme di suggestioni che cercavano di tenere il passo di quel cambiamento che aveva preso a galoppare nel paese e un po’ in tutto il mondo.

Il fatto è che la Dc non fu quasi mai un partito dottrinario. La sua storia si rintraccia più facilmente nelle persone che nei sacri testi. E dunque a volte è più l’antropologia che non l’ideologia che aiuta a capire meglio. Da questo punto di vista Bisaglia fu tra quelli che si spinsero oltre, forse perfino troppo. Ma non senza una ragione profonda. La sua idea di partito era ricalcata su un’idea di paese. Quasi un rispecchiamento, molto più che un’egemonia. Bisaglia intuiva, come s’è detto, una certa fragilità dell’insediamento al potere. Ma appunto per questo guardava con rispetto e attenzione a quel fitto reticolo di parlamentari, dirigenti, militanti, sindaci, amministratori locali che facevano vivere (e vincere) la Dc in quegli anni che cominciavano a diventare turbolenti.

Ricordo che ogni volta che si andava da qualche parte compulsava con attenzione i numeri della Navicella, dove erano riportati i voti di preferenza raccolti dai candidati. E in particolare si soffermava sui non eletti. Ognuno di loro era depositario di una massa, o anche solo di una scheggia, di consensi che andavano sempre tenuti da conto, analizzati con cura, annotati con estremo rispetto sulle mappe che segnavano i territori e gli equilibri della vita di partito in quegli anni.

Ricordo altresì che un giorno mi spiego la fondamentale utilità politica degli elenchi del telefono, che all’epoca venivano ancora stampati e distribuiti. Nei paesi che conosceva egli si divertiva a registrare quanti comparivano sull’elenco e quanti no. E ancora, chi si faceva precedere dai tutoli di studio e chi no. Chi magari  compariva sotto il nome della moglie. Chi pretendeva di essere registrato con tutte le lettere maiuscole. E così via. Una sorta di piccola, piccolissima antologia di spoon river scritta dai viventi con più di una punta di egocentrismo. Tutto materiale politico prezioso per quanti l’indomani sarebbero andati in cerca del loro consenso.

Fu Bisaglia, il 12 dicembre dell’89, il giorno in cui esplose la bomba a piazza Fontana, a scuotere Rumor, a letto febbricitante, e a “imporgli” di vestirsi, intabarrarsi e andare in televisione per parlare ai cittadini. E però quando anni e anni dopo, all’indomani delle sue dimissioni da ministro, raggiungemmo insieme un minuscolo paesino del Veneto dove i suoi amici gli avevano voluto dedicare una manifestazione di affetto e fedeltà, ricordo che la sua maggiore preoccupazione nel volo che ci portava da quelle parti era quella di “non piangere”. Come a dire che le emozioni degli altri andavano sempre tenute in gran conto. E le emozioni proprie, invece, andavano nascoste il più possibile.

Cronaca minore ? Può darsi. Ma la storia democristiana, e la storia dei democristiani, andrebbe letta soprattutto inforcando gli occhiali della quotidianità. Sfrondandola da ogni sua retorica. E facendola vivere semmai nel quotidiano di un popolo minuto e di un ceto dirigente che si faceva minuto esso stesso per corrispondere meglio al popolo da cui traeva il suo consenso e le sue ragioni.

Bisaglia percorse - e intrecciò - l’alto e il basso di quella lunga storia popolare, fatta di potere e di consenso. Senza dimenticare che era sempre il consenso che dava vita (e anche qualche ragione) al potere. E quasi mai l’opposto.

 

Marco Follini