Nel felicitarsi per la riconferma, del Presidente Sergio Mattarella al nuovo settennato, peraltro da chi scrive auspicata da tempo, resta aperta, in tutta la sua gravità, l’evidenza di un sistema politico ormai del tutto incapace di fare scelte autorevoli e ampiamente rappresentative del sentimento del paese - come è, ancora clamorosamente, avvenuto, nel momento di massima espressione delle funzioni di corpo elettorale che con elezioni, cosiddette di secondo grado, il Parlamento e i delegati regionali, sono chiamati ad eleggere il Capo dello Stato.
Ancora una volta ha trionfato l’inadeguatezza, non essendo stati capaci di indicare alcuna figura politica in grado di esprimere ed impersonare con pienezza di consensi e provata credibilità e coerenza, non solo nel quadrante politico interno, la funzione più rappresentativa del paese.
Mai come questa volta il paese ha atteso con apprensione e emozione, l’avvio delle votazioni per l’importante scelta che il Parlamento unitamente ai delegati regionali era chiamato a fare.
E non era meno immanente la consapevolezza che la partita del Quirinale non sarebbe stata una breve passeggiata.
Un po’ perché scegliere il Capo dello Stato, che ha come prerogativa prioritaria la funzione di rappresentare l'unità della nazione, vuol dire assicurare al paese un certo stile istituzionale e una consistente dose di credibilità che, chi è chiamato ad esercitarne il ruolo, deve portare oltre che nel paese, anche nel quadrante internazionale e geopolitico rendendosi garante dei cruciali impegni assunti, e di quanti altri da assumere, dall'Italia per un comune sentiero di sviluppo e di pace.
Un po’ perché in questo momento, assai difficile, sembrava quasi un salto nel buio non riaffermare un tandem che ha dato i migliori frutti.
Certo, il lavorio non era mancato.
Ma a dire il vero la percezione che si è avuta, con l’avvicinarsi dell’appuntamento parlamentare, è stata che non si fosse andati oltre semplici scaramucce e affermazioni di intenti, tanto che l’impressione generale continuava ad attestarsi sul fatto che nessuno era davvero entrato in partita.
In effetti nessuno dei leader delle coalizioni ha avuto la capacità di far sì che ci si sedesse insieme attorno ad un tavolo per un'intesa che coinvolgesse almeno le forze politiche che sostengono l’attuale governo.
Tanto che non pochi abbiamo avuto l’impressione che si fosse imboccata una strada sbagliata.
L’idea di far traslocare Draghi dal governo al Colle non appariva cosa di ordinaria amministrazione perché, rimanendo scoperto il nodo di un nuovo governo, rendeva necessario risolvere anticipatamente questo passaggio.
Per quanto potesse sembrare espressione di un esigenza obiettiva, ossia salvaguardare la stabilità della formula che sta sostenendo l’esecutivo, si era finito per complicare le cose ed entrare in un vicolo cieco.
E qui l’improntitudine e la supponenza di alcune forze politiche ha raggiunto il massimo.
In forza di quali poteri si poteva chiedere a Draghi di indicare un suo successore senza che egli fosse formalmente investito del nuovo ambito compito?
Forse non si era ben valutato il fatto che ci si era avviati nettamente su un versante che non trovava giustificazione neanche nella più estensiva lettura “materiale” della Costituzione, appartenendo quel rito, sebbene informale, a modelli istituzionali di tipo semipresidenziale.
A veder meglio poi in questa atipica trattativa si innestavano due nodi:
Da una parte il fatto che alcune leadership, non vedessero di buon occhio il commissariamento che si era abbattuto sul sistema con la tutela potestativa che d’imperio il Quirinale aveva dovuto mettere in campo, costretto, per l’inconcludenza delle proposte offerte nel corso della soluzione della crisi del Conte bis, a ricorrere alla personalità più autorevole ed invidiata da buona parte delle cancellerie di mezzo mondo.
Scelta legittimamente argomentata da Mattarella per sopperire, appunto, all’inadeguatezza di questi partiti, sempre più avvitati attorno a se stessi, palesemente non in grado di assicurare un esecutivo in un clima di unità nazionale: formula che appariva necessaria per rimettere in sesto un paese allo stremo.
Il secondo problema si correla ad un sospetto che veniva già da una preoccupazione che ha agitato tanti parlamentari da tempo, soprattutto buona parte di quelli provenienti dai 5 stelle, ma non solo.
E cioè il fatto che la preoccupazione per la stabilità governativa, come naturale conseguenza del passaggio di Draghi al Colle, non fosse altro che un artificio perché in realtà metteva in ombra un problema, avvertito, come detto, da tanti parlamentari, ossia la temuta non maturazione dell’agognato diritto al vitalizio per i tanti la cui probabilità di non rientro in una delle due Camere potrebbe dirsi come cosa scontata, anche per l’effetto della consistente riduzione di ben un terzo della rappresentanza di cui i 5 stelle sono stati i promotori.
E la questione non è apparsa come un mero opinare.
Tanto è vero che è stata una delle prime critiche che Giorgia Meloni ha lanciato ai tanti elettori di Mattarella bis, riassunta nell’espressione non certo lusinghiera:” Sette anni per sette mesi”.che sarebbero quelli che mancano per il naturate del diritto alla pensione.
Certo facciamo fatica a credere che l’istinto di conservazione mirato ad obiettivi strettamente personali possa essersi intrecciato, persino, in un appuntamento così solenne e assai delicato, con la funzione rappresentativa che esige un agire, in direzione, solo ed esclusivamente, degli interessi del paese.
Fare il processo alle intenzioni è sempre cosa difficile e azzardata.
Così non posso che augurarmi che queste valutazioni della Meloni restino nella sfera delle illazioni.
Ma il paradosso di questo dilemma ci riporta al celebre motto di Thomas Eliot, come ci ricorda in un suo articolo sulla Stampa, Piergiorgio Odifreddi, che prendendo spunto da “L’Assassinio nella cattedrale” di quell’autore, descrive nel miglior modo possibile il comportamento del Parlamento nell’elezione presidenziale che si è appena consumata: «Quest’ultimo atto è la peggior bravata, fare la cosa giusta per la ragione sbagliata.
La cosa giusta è stata rieleggere un ottimo presidente, e la ragione sbagliata è stata forse farlo soltanto per permettere la sopravvivenza di un pessimo Parlamento: forse il peggiore che abbiamo avuto, dai tempi del “Parlamento degli inquisiti” del 1992”.
Certo è che interrompere l’azione di governo, in questa fase così delicata ed attendere eventualmente la soluzione di una crisi che non sarebbe stato facile ricomporre, non avrebbe portato bene al nostro paese perché avrebbe potuto danneggiare fortemente il processo di attuazione del Pnrr, oltre a tutte le decisioni, tempestive, che le crisi nei quadranti internazionali, a cominciare da quella Ucraina, potrebbero richiedere.
Ma se da una parte la soluzione ha finito per dare al paese e all’esecutivo nuova forza e la rassicurazione che l’Italia vuole portare avanti con la dovuta determinazione il programma di rinnovamento che ci siamo impegnati a realizzare in sede europea, preoccupa l’agonia del sistema politico giunto al punto di non essere più in grado di offrire al paese proposte politiche condivise, rifugiandosi, ancora una volta,come in questo solenne appuntamento, nella più comoda delle soluzioni: la rielezione del Presidente.
E di certo il precedente del doppio mandato al Presidente Napolitano non colloca questa riproposizione come un semplice accidente, seppur non strida formalmente con il dettato costituzionale.
Sono sicuro che se i nostri padri costituenti avessero messo in conto una simile successione di reincarico, avrebbero posto dei limiti espliciti.
Sta di fatto che c’è andata bene.
Mattarella è il miglior Presidente della storia della nostra Repubblica.
Ma tutto quel disinvolto prodursi in giravolte e forsennati tentativi, tirando fuori, di volta in volta, nomi illustri e grandi servitori dello Stato, buoni per durare poche ore, è stato umiliante per il popolo italiano che si attendeva una scelta rapida e condivisa perché si desse un chiaro messaggio di fiducia al processo di promozione e di rilancio del sistema produttivo, all’ammodernamento dei servizi pubblici e a solide prospettive di sviluppo.
Questo vuoto di idee e di progettualità, di competenza e di stile istituzionale dovrà essere colmato al più presto se non vogliamo consegnare il paese definitivamente alle forze reazionarie e populiste ed al trasformismo permanente di cui è ancora una volta maestro il movimento 5 stelle con il disinvolto cambio di maschere dei suoi più alti dirigenti: dall’impeachment a Mattarella, all’essere i più accesi suoi sostenitori; dal sostegno ai gilet gialli all’essere i più fedeli esecutori di Draghi.
Un camaleontismo che disorienta e accentua le diffidenze perché costruito su clamorose e palesi antinomie ed incoerenze rispetto ai tanti proclami rivolti agli elettori.
E non ha tutti i torti l’amico prof. A. Giannone per il quale "appare evidente ai giovani Millennials che manca nei politici l’ambizione, cioè l’immaginazione, il progetto e la prospettiva storica, la passione per la ricerca del Bene Comune”.
Cui aggiunge una considerazione di grande effetto di Alexis de Tocqueville, ancora assai attuale: «Penso che gli arrivisti delle democrazie siano quelli che si preoccupano meno di tutti gli altri del futuro: soltanto il momento attuale li preoccupa e li assorbe. Essi amano il successo più che la gloria. Ciò che desiderano soprattutto è l’obbedienza. Ciò che vogliono soprattutto è dominare……Confesso che mi fa molto meno paura, per le società democratiche, l’audacia che non la meschinità dei desideri; ciò che mi sembra da paventare di più è che l’ambizione possa perdere il suo slancio e la sua grandezza; che le passioni umane si plachino e insieme si abbassino, talché l’andamento di tutto il corpo sociale si faccia ogni giorno più tranquillo e meno alto”.
Per quanto si voglia essere benevoli, questi leader politici potevano risparmiarci alcune sequenze che hanno obiettivamente rasentato il grottesco: dal disinvolto tentativo di Berlusconi, lanciatosi in una inedita (perché mai successo nella storia degli appuntamenti per il rinnovo del settennato) ed impudica plateale campagna elettorale, porta a porta, ovviamente tra i grandi elettori, ad un Letta che, pur con uno stile più sobrio, ha saputo solamente posizionarsi sulla difensiva, se non addirittura in un totale immobilismo( forse nutrendo, in una buona dose di lungimiranza, l’idea che non fosse del tutto fuori l’ipotesi di una rielezione di Mattarella): resta il fatto che non ha saputo proporre alcun nominativo di rilievo.
Che dire poi di un Renzi che si è mosso con qualche ambiguità, soprattutto non disdegnando di dare l’impressione di sostenere proposte calate dall’alto in cui si è sperticato il centrodestra, anche se non sono mancati sprazzi di lucide e coraggiose analisi, pur se mai disgiunte da un certo sotterraneo machiavellismo.
E di Salvini, che come il mago Silvan sembrava facesse il gioco delle tre carte, dove non avevi neanche il tempo di memorizzarne una che già quella stessa carta aveva cambiato sembianze.
Così plateale inadeguatezza dovrà trovare urgente risposta in una profonda azione di rinnovamento del sistema politico e parlamentare, cui peraltro l’incomprensibile decisione di una non insignificante riduzione dei rappresentanti del popolo, dettata prevalentemente da un irrefrenabile sentimento di antipolitica e di antiparlamentarismo, che il populismo ha poi cavalcato nel conseguente referendum, ha finito per infliggere grave mutilazione alla sapiente ed equilibrata composizione che i nostri padri costituenti avevano saputo disegnare per assicurare la più ampia e aderente rappresentanza dei territori del paese.
In ogni caso, lo stato delle cose, con un paese fortemente piegato da una emergenza pandemica insidiosa e resistente fino al punto di squassare la nostra capacità produttiva e dare il colpo di grazia a tante piccole imprese e tanti professionisti, non poteva permetterci ne’ una crisi di governo con Draghi al Colle, né una presidenza senza un consenso largo, pari a gran parte delle forze politiche che sostengono il governo, per il forte rischio di non rassicurare abbastanza le segreterie internazionali e i mercati finanziari da cui inevitabilmente dipendiamo per l’enormità di un debito pubblico, sempre più in crescita.
Certo non è di competenza del Capo dello Stato curare la politica dei rapporti con i nostri partner e il pieno rispetto dei trattati, ma senza quella garanzia istituzionale, legata alla statura e all’autorevolezza di chi esercita quel ruolo, la diffidenza che ci circonda non aiuterebbe questi delicati processi.
Ci sarà sicuramente di grande lezione questa sofferta parentesi istituzionale.
Ma duole constatare lo sgretolamento della galassia centrista, prima pronti a fare da stampella alla surreale candidatura di Berlusconi, poi con la balcanizzazione dei suoi grandi elettori, divisi, persino nell’ambito dello stesso gruppo, sui nominativi proposti.
Ora dobbiamo correre e concentrarci per centrare ben 46 obiettivi cui si correla il versamento dei fondi entro giugno per far fede alle prime concrete attuazioni del Pnrr.
Ma non meno delicata ci appare la indifferibile riforma della giustizia e prioritariamente del Csm, in prossima scadenza.
Ci sono poi da risolvere tutte le grane create dalla farraginosa gestione normativa della pandemia, fino alle misure che si appalesano urgenti per predisporsi a fronteggiare il caro energia, che ha indotto un trend inflazionistico che si aggraverà ulteriormente attraverso l’ulteriore riverbero che dagli Usa si sta espandendo in Europa.
Per fortuna un primo sollievo sembra trarsi dall’esito del primo Cdm post Quirinale, per la forte determinazione impressa da Draghi, ormai libero da ogni ambizione, nel sollecitare i ministri alla tempestiva attuazione dei primi step per ottenere, appunto,nei tempi previsti l’erogazione dei fondi previsti dal Recovery plan.
Mentre pare essersi avviata una generale resa dei conti tra le varie fazioni di questi partiti e all’interno delle coalizioni deflagrate da questa deriva senza bussola prodotta principalmente da un leaderismo spregiudicato che ha generato supponenza, velleitarismo e massimalismo.
Un mix senza limiti che ha pervaso sia il centrodestra che il centrosinistra finendo per irretire e mettere in stallo il parlamento, tra candidature con disinvolti porta a porta tra i grandi elettori, fai da te e improvvide prove di forza, arrivando persino a “bruciare” la seconda carica dello Stato.
Ma dai primi segnali che ci stanno giungendo non mi pare ci sia da aspettarsi nulla di buono in termini di una rigenerazione di questa classe politica.
Se il metodo continua ad essere, come pare, quello di inventarsi nuove e bizzarre formule come quella proposta da Salvini di un partito repubblicano sullo stampo di quello americano, anziché fare autocritica e indagare sulle cause profonde di questa grave crisi di sistema, difficilmente questi partiti potranno essere degli interlocutori plausibili.
Ma non appare meno insidiosa e deflagrante, per il processo di ricostruzione in atto del partito scudocrociato, la proposta, peraltro non nuova, di un “Centro politico che sappia aggregare: i Popolari, i Democristiani, i Liberali, i Moderati Riformisti, i Verdi ispirati alla Laudato Sì di Papa Francesco..”.
Sarebbe come esporre il partito, ancora impegnato a ricostruire la propria identità e presenza nel territorio, ad un mix di culture, di logiche e di metodi che nella più recente declinazione, da Berlusconi a Renzi, da Casini a Cesa e Lupi, hanno ridotto la politica a disinvolti tatticismi, privi di una lungimirante e coerente visione di paese.
Uno scenario che se da una parte non può farci ben prefigurare la certezza di un nuovo virtuoso soggetto politico, di certo rischia di essere un avventurismo che si farebbe bene ad evitare, il cui sicuro effetto, nella debolezza di un processo riorganizzativo ancora da concludere, non sarebbe altro che lo snaturamento di quella parte del patrimonio di valori identitari di cui la DC è stata interprete, almeno per una buona parte del suo segmento temporale, e che ancora oggi si rivelano essere la via maestra per imprimere, in una nuova e più avvertita dimensione etica, solidità, autorevolezza e credibilità al necessario rinnovamento della classe politica, ormai alla deriva.
Luigi Rapisarda